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Premessa

Il presente lavoro non costituisce una guida ai musei etnografici della Toscana (ne esistono già anche di recente pubblicazione e sono citati nelle pagine che seguono), ma, a partire dai reperti in essi conservati, vuole offrire un contributo alla conoscenza dei modi di vita delle campagne toscane, quando le attività economiche e i modi di vita erano legati soprattutto alla terra e al lavoro dell'uomo. Una sorta di itinerario dunque in cui fonti materiali, iconografiche e letterarie si fondono per delineare e offrire ad un pubblico ampio e vario come quello che accede a internet un pezzo di storia, piuttosto recente secondo la cronologia, ma lontanissima come percezione psicologica. L'intento è quello di chiarire funzioni e modalità di impiego degli oggetti della cultura materiale a coloro che, non potendo fare riferimento alla propria esperienza diretta, si accingano a visitare questi musei e nello stesso tempo fornire spessore storico a raccolte che talvolta potrebbero dare l'impressione di una semplice esposizione di oggetti. Per questi motivi si propone un itinerario tematico che, pur tenendo conto delle singole raccolte, ne evidenzia e sintetizza le specificità e le caratteristiche in relazione agli ambienti naturali ed antropici. Tale itinerario è suscettibile di ulteriori ampliamenti; quello che noi proponiamo (nell'ottica della sua fruizione da parte di un ipotetico visitatore) offre una serie di percorsi in cui la rete museale toscana risulta inserita nel contesto ambientale, illustrato nelle sue trasformazioni e nella sua continuità ed in quanto tale esso stesso museo. Tanto per fare un esempio, si potrebbero costruire percorsi del tipo: dal Mugello alla Romagna toscana, dalla Val di Sieve al Casentino e alla Val Tiberina, attraverso i monti del Chianti, ecc.

I musei etnografici in Toscana: il punto della situazione

Il vecchio mondo rurale, legato alla terra e al bosco, con i suoi sistemi di lavoro, i suoi tempi, i suoi ritmi, le sue dinamiche familiari e sociali, il suo rapporto con il caldo e con il freddo, con la fatica e con la fame, con la religiosità e con la magia rappresenta ormai un modo di vita che per molti suona lontano nel tempo. Un'altra epoca, anche per chi l'ha vissuta in prima persona, una memoria da recuperare soprattutto per le nuove generazioni che, figlie del moderno, diffuso benessere tecnologico che ha definitivamente modificato anche la vita quotidiana, hanno perso i legami non solo con il passato dei padri, ma anche con la tipicità degli ambienti in cui risorse naturali e lavoro dell'uomo si intrecciano e si confondono.

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Un'opera quindi non solo di memoria storica, ma anche di conoscenza e chiarificazione del presente. In Toscana, per la lungimiranza e la passione di associazioni private o singoli cittadini, spesso con il sostegno degli Enti locali, da tempo è stato operato il recupero e la conservazione di attrezzi, oggetti, immagini, legati a vario titolo alla cultura contadina e rurale, antecedente alla meccanizzazione e all'abbandono delle campagne, con la creazione di numerosi musei etnografici. La tendenza attuale è quella di avviare il recupero di alcuni edifici che hanno avuto un ruolo importante in questo tipo di economia come mulini, gualchiere, seccatoi, officine, opifici industriali in genere, creando anche percorsi museali all'aperto.
Molti di questi musei sono proprio intitolati alla civiltà contadina come quello di Casa d'Erci (Grezzano, Borgo San Lorenzo), Gaville (Figline Valdarno), Castel Nuovo Val di Cecina (Pisa), Torrita di Siena (Siena), Castello di Vinci (Vinci), Massa Marittima (Grosseto), ma anche gli altri, dedicati più genericamente al lavoro delle campagne o denominati con le località in cui gli oggetti sono stati recuperati (il Museo del Chianti, il Museo del castello di Porciano, la Raccolta Emilio Ferrari, il Museo Etnografico della Lunigiana, tanto per fare alcuni esempi) raccolgono attrezzi che riguardano i lavori dei campi e i cicli produttivi accanto ad attività tipiche della zona in questione
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Solo in alcuni casi queste raccolte sono completamente specializzate: è il caso del Museo della vite e del vino della Val di Sieve (Villa di Poggio Reale, Rufina), del museo del castagno (Colognora di Pescaglia), del Museo della vita e del lavoro delle genti di montagna (Palazzuolo sul Senio), del Museo della civiltà del castagno (Ortignano Raggiolo). La loro diffusione sul territorio e la loro, spesso simile, connotazione racconta le caratteristiche dell'economia rurale della Toscana imperniata prevalentemente sull'agricoltura, nelle aree di pianura, nelle conche interne e sulla media collina, sullo sfruttamento del bosco e del pascolo mano a mano che ci si inoltra sulla dorsale appenninica o comunque in area a forte presenza boschiva, raccontano del podere a mezzadria e della pluralità dei generi coltivati, della versatilità del mezzadro che è anche un po' artigiano, un po' boscaiolo, un po' pastore.
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Secondo il censimento della recente Guida ai musei, alla quale si rimanda per una più dettagliata illustrazione, in Toscana se ne contano 34. Segnaliamo inoltre il Museo del paesaggio appenninico a Moscheta (Firenzuola) e il citato Museo della civiltà del castagno (Ortignano- Raggiolo) di recente apertura.
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Il podere a mezzadria

La mancanza di specializzazione di molte raccolte in precisi settori e la presenza di attrezzi inerenti a varie coltivazioni quali il frumento, la vite, l'ulivo, quasi sempre il bosco nella zona appenninica, all'allevamento di bovini, ovini e animali da cortile, alla trasformazione dei prodotti, deriva dalla struttura stessa del podere mezzadrile concepito apposta per garantire la completa autosufficienza della famiglia colonica e del proprietario.

Questa struttura agraria, che ha profondamente modellato le campagne toscane con l'ordine dei filari misti che delimitano le strette strisce a cereali, l'orditura dei fossi di scolo e delle viottole, i muretti che circoscrivono le strade inerpicantesi sulle colline o proteggono e sostengono i campi, i boschetti di selvatici, i cipressi sparsi è essa stessa un elemento storico-paesaggistico da salvaguardare. Essa è il risultato di una lenta e armonica costruzione iniziata nel basso medioevo ad opera della borghesia cittadina che intese investire nella terra ricomponendo i suoli, in precedenza frammentati in numerose particelle fruite da agricoltori diversi, in aziende razionalmente accorpate e coltivate a generi promiscui. In ogni podere, formato da una quantità di terra arativa, coltivata a cereali o legumi, tale da produrre un reddito netto almeno doppio di quello necessario al sostentamento della famiglia contadina (l'altra metà spettava al proprietario), vennero impiantati, ai limiti dei campi, filari misti di viti, gelsi e alberi da frutto. 06
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"A nome di Dio amen.1405 a dì 1 di Novembre. Sia manifesto a qualunque vedrà questa iscritta, come Piero di Nello, dipintore del popolo di Santa Maria Alberigi di Firenze, alluoga oggi, questo dì, mio podere posto nella villa di Rabatta, comune del Borgo San Lorenzo, a Giovanni di Nuto, chiamato Cerretta, e a Benvenuto e a Biagio figlioli del detto Giovanni, con questi patti e condizioni:

- che detto Piero deba comperare un paio di buoni buoi, sufficienti a lavorare el detto podere e debasi stare per metà di vendita e compra, e ciò che n'avvenisse; e deba il detto Piero fornire di tutti i porci e pagare ogni anno, e detti lvoratori gli debbino tenere infine al tempo competente e rendere per metà;
- e deba il detto Piero mettere mezzo seme e sovescio e concime di mezzo
- e deba il detto Piero fornire el lavoratore d'ogni bestia che volesse tenere e in quantochè il detto Piero non lo fornisse ne possa torre da chiunque e' vole,
- e deba il detto Piero fornire d'ogni strame che bisognasse il primo anno e dal primo innanzi se mancasse debbasi comperare per metà;
- e deba il detto Piero prestare a detti lavoratori fiorini 30 d'oro di suggello, cioè fare l'ampromessa per tutto il mese di giugno e anche i detti lavoratori vorrranno, cioè fare il pagamento per tutto il mese di ottobre prossimo che verrà; e detti lavoratori debbano rendere e restituire e' detti denari al detto Piero a quel tempo che eglino avessino a uscire del luogo sopraddetto;
- e' detti lavoratori debbono rimettere e mantenere le fosse sì che stiano bene ogni anno;
- e' detti lavoratori debano vangare ogni anno staiora 12 di terra a seme o più;
- e' detti lavoratori debbono porre ogni anno trenta piantoni o più di albero o di salcio;
- e' detti lavoratoridebano mettere opere quattro a ricoricare la vigna;
- e debano i detti lavoratori per Ognissanti dare al detto Piero paia due di capponi e dieci serque d'uova ogni anno;
- e' detti lavoratori debano tenere un fanciullo da bestie in quanto eglino non ne fussano forniti da loro;
- e' detti lavoratori debano rendere ogni anno la metà di tutte le frutte ed ogni caso che si ricoglie in sul podere;
- e' detti lavoratori debbono pigliare e' porci quando il detto Piero vorrà darli loro. Io frate Francesco di Francesco da Firenze, guardiano del luogo dei Frati Minori, cioè di San Francesco al Borgo a San Lorenzo in Mugello, ho fatta questa iscritta a loro priego e di loro consentimento e pertanto l'ho scritta di mia propria mano. Anno, dì e mese di sopra nominato
"

Il contratto mezzadrile dell'inizio del Quattrocento non differiva molto da quello che è rimasto in vigore fino ai nostri giorni. Il 1 novembre 1405, un tale Piero Nelli, cittadino fiorentino sottoscriveva il seguente patto:
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Questo tipo di contratto avrà una fortuna straordinaria e porterà alla formazione di quelle unità fondiarie compatte, il podere, che permetterà l'instaurarsi del rapporto mezzadrile. Era tipico di questo contratto che il proprietario prestasse al colono una somma iniziale per far fronte ai primi, indispensabili acquisti, somma che il contadino avrebbe dovuto restituire al momento della scissione del contratto. Questo debito iniziale costituiva un legame vincolante con la terra perché assai difficilmente, dopo tre o cinque anni, il mezzadro avrebbe potuto restituire un prestito abbastanza cospicuo. A questo si aggiunga le prestanze e gli anticipi che il proprietario faceva ogni volta che cattiva stagione, calamità naturali o guerre compromettevano il raccolto e che determinavano quello stato di continuo indebitamento del mezzadro. Al padrone si chiedeva grano per mangiare, per seminare, denari per comprare animali, denari per pagare nuovi e vecchi debiti. L'indebitamento diventava così una catena pesante per entrambi: il proprietario temeva che il prestito non gli sarebbe stato mai restituito diventando sempre più insoddisfatto e sospettoso, il contadino, che ormai non avrebbe dovuto lavorare altro che per estinguere il debito, accumulava rancore nei confronti di chi si prendeva metà dei prodotti senza la fatica del lavoro.

Gli interessi contrapposti fra i due protagonisti del patto colonico finiscono per provocare una sorta di diffidenza nei confronti del contadino verso cui si consiglia, da parte di uomini d'affari, di mantenere una distanza di tipo culturale e sociale. Nasce anche la satira del villano su cui insistono volentieri le fonti fiorentine: rozzo e resistente alle innovazioni, è incapace di curare la qualità dei prodotti, in favore della loro quantità. In epoca recente il contratto di mezzadria conteneva anche l'elenco e il valore economico degli attrezzi più importanti (carro, aratro, trinciaforaggi), delle scorte e dei concimi che venivano consegnati al contadino, (questa veniva detta stima morta), unitamente all'elenco del bestiame (stima viva). Questi dati economici erano trascritti nei registri della fattoria e nel quadernuccio o libretto colonico di ogni mezzadro che veniva ogni anno aggiornato con le nuove entrate per vendite in comune con il proprietario, ma anche con le uscite per spese inerenti il bestiame o il podere per cui finiva spesso in debito con il proprietario. Al mezzadro, che si trovava ad operare con mezzi e strutture insufficienti, veniva demandato il compito, oltre che della vangatura (più efficace, ma più faticosa dell'aratura) e della semina, del rinnovo della vigna, del mantenimento delle fosse di scolo, della custodia degli animali, del miglioramento in genere della proprietà. Il lavoro umano doveva cioè supplire all'arretratezza delle tecniche, alla povertà dei concimi, alla carenza o alla fragilità degli strumenti agricoli. In poche parole il nostro bel paesaggio toscano, armonico sul piano ecologico-ambientale, con la viabilità campestre e interpoderale, i muretti a secco che ne circoscrivono il percorso o sostengono i terrazzi, i cipressi sparsi, i tabernacoli situati ai crocicchi, è sì il frutto dell'intelligenza e dei capitali della borghesia cittadina, ma anche della fatica e degli interminabili tempi di lavoro di una massa di oscuri contadini.

La casa colonica

Le pertinenze di un podere non sempre costituivano un blocco compatto: spesso intorno al nucleo centrale ruotavano altri appezzamenti. Sulla parte centrale sorgeva il fulcro direttivo del podere: la casa colonica, in posizione isolata, con tutti gli ambienti necessari alla vita di una famiglia e funzionali agli ordinamenti produttivi aziendali (stalle, fienile, granaio, cantina, orciaia, talora caciaia e seccatoio per le castagne). Era prevalentemente costruita, in pietra estratta localmente, murata con calcina, squadrata lungo gli spigoli, con uso di mattoni per gli archi; talvolta i muri erano intonacati e gli impiantiti generalmente di mattoni. Spesso prevale il modello a crescita continua consistente in corpi di fabbrica di varie dimensioni, forme e altezze addossati in periodi storici diversi l'uno dall'altro, talora con cortile murato

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Il podere del Santo, ad esempio, uno dei diciassette poderi della fattoria di Santa Maria Nuova a Grezzano (Borgo San Lorenzo), era formato da due edifici. La casa abitata dalla famiglia era formata da undici stanze: cinque a piano terreno e sei a palco. A piano terra si trova la stalla delle pecore, lo stabbiolo del maiale, la stalla delle somare, il forno, la cantina, la stanza della frasca ossia vincillia, cioè le fronde degli alberi conservate per nutrire il bestiame durante l'inverno. Al piano superiore si trovava l'abitazione del contadino formata dalla cucina, dalla dispensa, da tre camere oltre allo stanzino per l'olio. Nel secondo edificio si trovava la stalla dei manzi, la capanna, lo stabbiolo del maiale, il granaio. In altri casi la dimora è unitaria e contiene nello stesso edificio stalle e parte dei rustici a piano terreno.
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La casa del podere di Lavacchio, sempre di Santa Maria Nuova, ad esempio, è formata da dieci stanze di cui cinque a terreno e cinque a palco. A piano terra si trovava la stalla delle somare, due stalletti dei maiali, la cantina, la caciaia, la stalla dei manzi, la stalla delle pecore, il forno, il seccatoio ossia la canicciaia, una capanna murata interna alla casa e tre portici. Al piano superiore si trovava la cucina, tre camere e il granaio. Talvolta la casa del contadino era affiancata a quella da signore, residenza più o meno saltuaria del padrone quando si recava in villa. Si è andata poi formando un'altra tipologia di abitazione contadina nata dal riutilizzo delle case da signore declassate, talvolta caratterizzate dalla presenza della torre che diverrà il torrino-piccionaia e servirà da modello per l'edilizia rurale.
Il punto centrale dell'abitazione era la cucina. L'arredo era costituito da alcuni elementi essenziali: il focolare, la madia, l'acquaio, il tavolo, le panche. A questi si potevano aggiungere altri oggetti in base alla maggiore o minore agiatezza economica della famiglia o alle attività produttive, complementari a quella agricola, che venivano svolte.

Il focolare costituiva il cuore della cucina: qui il fuoco era sempre acceso o fiammeggiante o tenuto tiepido da una brace. Intorno erano disposte delle panche dove, nella stagione invernale, ci si poteva scaldare più efficacemente. Generalmente in prossimità di una finestra era sistemato l'acquaio, realizzato con una pietra rettangolare incavata. In ogni casa colonica non mancava mai la madia, mobile rettangolare con coperchio ribaltabile, che serviva per preparare il lievito e lavorare la farina per fare il pane. Di solito nella madia si conservava anche il pane già cotto. La camera da letto costituiva l'unico spazio privato della famiglia contadina, condiviso soltanto con i figli più piccoli. La casa poteva avere più camere, in questo caso gli anziani dormivano in quella più calda , situata sopra la canna fumaria della cucina. Anche in questa stanza l'arredo era essenziale: il letto con i materassi riempiti di foglie di granturco, il cassettone con uno specchio, l'armadio, i comodini, il baule che conteneva il corredo, il lavamano.
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La preparazione del terreno

In queste raccolte sono quasi sempre presenti gli attrezzi per la lavorazione del terreno che, a secondo delle caratteristiche o degli interventi da operare, richiedeva un attrezzo diverso: di qui una gamma di zappe, vanghe, aratri che possono dare l'idea della ripetitività all'occhio del profano, ma che invece rappresentano tutte varianti significative. Le vanghe, le zappe, il bidente (zappone a due punte per i terreni sassosi, in Chianti è chiamato ubbidiente), gli aratri, gli erpici ricordano i lavori più duri per il contadino: preparare il terreno per una buona crescita della pianta.

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Per secoli la vanga è rimasta lo strumento principale nel lavoro di dissodamento: si diceva la vanga ha la punta d'oro perché rivoltare la terra portando in superficie gli strati meno sfruttati dalle colture degli anni precedenti, interrare le erbe, arieggiare e rendere friabile il terreno procurava, per il tempo, ottimi risultati agrari. A partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento le coltrine di ferro sostituiranno la vanga che, tuttavia, si continuerà ad usare per dissodare terreni marginali. Le zolle andavano poi spianate e sbriciolate con l'erpice. Gli antichi aratri a ceppo di legno, usati per fare i solchi, continuano a convivere con i più funzionali aratri in ferro, e saranno definitivamente soppiantati solo dai radicali cambiamenti delle strutture tecniche agrarie avvenuti tra il 1950 e il 1970.
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La mietitura e la trebbiatura

Ai primi di giugno, per San Barnaba, cominciava la fienagione: si usava dire per San Barnabà la falce al prà; terminata questa operazione cominciava la segatura del grano. Le erbe da foraggio, in genere, si tagliavano con la falce fienaia; queste, una volta essiccate, erano ravviate e portate nella capanna; sarebbero state utilizzate come nutrimento degli animali durante l'inverno. Quant'era faticoso segare, altrettanto era leggero e piacevole, rasciugata l'erba al sole, rivoltarla, con le forche di legno, perché finisse di seccarsi o, seccata, ammucchiarla vicino al carro che l'avrebbe poi portata in capanna, e a questo cooperavano le donne nei campi odorosi di trifoglio, d'erba medica, di lupinella, ronzanti d'ogni specie d'insetti tra un fitto giostrar di rondini alla loro caccia. E' un brano di "Maremma amara" del Casini.

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"Segare": l'espressione si riferisce all'uso del falcetto dentato con il quale si tagliava il frumento poco sotto la spiga. Nei primi del Novecento, la mietitura del grano, alla quale partecipava tutta la famiglia, ma spesso anche parenti e vicini, si faceva con la falce a mano, tagliando il grano raso terra. Con la falce si ravviavano le manate per fare il covone. Ogni tanto si doveva assottigliare la lama della falce battendola con il martello e ripassando il filo con la pietra. A partire dagli anni '30 del Novecento, con l'introduzione delle falciatrici meccaniche, la mietitura diviene più rapida, ma il rito continua: si mangia nei campi, a sera si rabbalzano i covoni a formare le serque (12 covoni disposti in croce, uno sull'altro) che resteranno nei campi fino al momento della trebbiatura. "Due giorni ancora di sole e s'incominciava a legare. Era questa una faccenda vespertina a cui prendevan parte le donne, e ne venivano, volontarie, paghe della merenda- cena, anche dalle case vicine, e il piacere compensava anche qui la non gravosa fatica, consistente nel rimbalzare, ossia raccogliere e ammucchiar gli sparsi brancati sulle ritorte di vetrici tese per terra, che gli uomini, dietro dietro, con l'aiuto di un puntale di legno, stringevano e annodavano per i capi. I covoni così fatti, venivano poi alla loro volta ammucchiati qua e là per il campo in tante piccole biche, le" cavallette", da cui sarebbero poi a suo tempo ripartiti per l'aia a formarvi l'unica grande bica, la barca." (ancora da "Maremma amara"). Seguiva poi la battitura, operazione indispensabile per separare i semi dalla spiga. Fino agli inizi del Novecento si batteva il grano a mano e con il correggiato, utensile formato da due grossi bastoni snodabili. L'introduzione delle macchine richiese un maggior numero di manodopera, fino a trenta persone al giorno; così alla famiglia si associavano quelle dei dintorni, per lo scambio dell'opre, questo contribuì a creare un momento di forte aggregazione tra i contadini. Il pranzo della battitura era anche una gran festa per tutti.

La vite e il vino

Allevata alta e maritata all'acero oppure, ma più raramente, tenuta bassa in vigneti specializzati, la vite era presente in tutti i poderi toscani, anche in quelli di alta collina. La raccolta dell'uva, la vendemmia, costituiva una delle attività più importanti dell'annata agricola. Oltre a tutta la famiglia contadina, compresi i ragazzi, partecipavano a questo lavoro, in un clima di allegria, parenti e conoscenti. Per chi aiutava c'era, oltre al pranzo, la ricompensa, alla sera, di una canestra d'uva. Canestre, canestrini, cesti, roncole, coltelli, scale, scalei, bigonce sono dotazioni un po' presenti in ogni museo in virtù della diffusione, fino dal Medioevo, della vite. L'uva vendemmiata si ammostava subito nelle bigonce predisposte in cima ai filari, poi queste erano caricate sul carro e vuotate nel tino, nella cantina del mezzadro o in quella della fattoria. Al momento della svinatura il contenuto dei tini passava nei barili. Prima di dare inizio alla vendemmia si sceglievano certe qualità di uva (sangioveto, canaiolo nero, colore , detto anche abrostine) che, messe ad appassire su delle stuoie, sarebbe servita a dare il governo, per continuare cioè la fermentazione ed aumentare i gradi alcolici del vino. Come ricorda Guarducci:

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"Le uve destinate al governo sono scelte e colte ben mature, generalmente avanti la vendemmia di quelle comuni; e vengono trasportate ai locali di appassimento in ceste poco profonde per evitare che restino ammaccate. Questi locali consistono in stanzoni asciutti e ventilati; situati quando è possibile ai piani superiori dei fabbricati, con finestre aperte nelle pareti opposte per meglio stabilire delle correnti d'aria che valgano a correggere l'umidità atmosferica. Le finestre dovranno essere guernite di rete metallica fitta, per impedire l'accesso non solo ai topi, ma anche agli insetti; e segnatamente alle mosche, alle vespe e ai calabroni. Le uve sono deposte su cannicci collocati, a piani diversi, sugli stessi castelli che servono per l'allevamento dei bachi da seta o su attrezzi analoghi; per modo che in piccola superficie si possano accumulare quantità relativamente di grappoli. Questi vengono distesi gli uni accanto agli altri sui cannicci badando che non si sovrammettano né si tocchino: e le uve si lasciano così ad appassire per 30 o 40 giorni, trascorso il qual tempo vengono spicciolate. Gli acini secchi o marci o ammuffiti si escludono; quelli sani si lasciano cadere in bigonce dove vengono ammostati con pestelli di legno, lasciando per qualche tempo in riposo il miscuglio di buccie e mosto perché abbia luogo la fermentazione. Quando il mosto leva il capo, cioè le parti solide per il moto fermentativo cominciano a salire in alto per formare il così detto cappello, si decanta la parte liquida per separarla da quella solida; le bucce rimaste vengono spremute a mano, ovvero mediante un piccolo strettoio…Il mosto per il governo si dà nella misura del 2,5% per i vini buoni e robusti, e del doppio per quelli deboli".
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Allo stesso modo si sceglieva anche l'uva per fare il vinsanto, anche questa era messa ad appassire e sistemata successivamente nei caratelli. Oltre alla coltura promiscua della vite, nel podere a mezzadria, dalla metà dell'Ottocento, si andò affermando una viticoltura specializzata. Scriveva Vittorio Degli Albizi a proposito delle basse produzioni toscane: La causa prima e principalissima della nostra inferiorità è, a parer mio, il comune sistema di coltivare la vite sempre associata ad altre colture arboree e annuali, né mai da sé sola, contrariamente a quanto si pratica dove si vuole buono e abbondante prodotto.
Nella sua fattoria di Pomino (Val di Sieve) operò profonde innovazioni sia nella coltivazione della vite, introducendo vitigni stranieri per sfruttare anche una fascia climatica di bassa e media montagna, tale però che potesse fornire un prodotto qualitativamente valido per il mercato.
Modificò, accentrandola, l'organizzazione della fattoria in modo da operare un forte controllo sui processi di vinificazione Conseguentemente a queste innovazioni il mezzadro dovette sempre più dipendere dalle direttive aziendali riguardo alla scelta degli indirizzi colturali e delle operazioni da svolgere nel lavoro dei campi come dimostra in modo emblematico l'introduzione della zolfatura e della ramatura delle uve contro la crittogama e la peronospera volute dal proprietario.
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I tini vennero sistemati in pochi grandi edifici di fattoria, ma l'unificazione delle strutture non investì l'aspetto contrattuale: infatti ogni mezzadro continuò ad avere assegnati i propri tini. Ma il rilevante incremento della vite rendeva necessario che il colono spendesse più forze e più tempo nelle cura di questa pianta. Il vino assunse nella fattoria di Pomino un ruolo decisivo, come rileva Ciuffoletti, passando da una media annua di 388 ettolitri del 1849-52 ai 1131 del 1877-86.
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La produzione del vino e la sua commercializzazione, in Italia e all'estero, divennero, dopo la metà dell'Ottocento, un fenomeno rilevante. Alla specializzazione del prodotto, si affiancò anche, nella Val di Sieve, l'attività industriale di alcune cantine: Spalletti alla Rufina, Melini e Ruffino a Pontassieve. Parallelamente nacque tutta una serie di attività per la produzione dei contenitori del vino, dalle botti ai fiaschi. In particolare a Pontassieve si affermò una vetreria per la fabbricazione dei fiaschi che attivava anche un forte lavoro a domicilio per la loro impagliatura. Oggi alcuni reperti sono conservati nel Museo della vite e del vino con sede a Rufina presso la villa di Poggio Reale.
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La coltivazione dell'olivo

Nonostante la rinomata qualità dell'olio toscano possiamo dire che, all'inizio dell'Ottocento, la sua diffusione era ancora piuttosto scarsa. La coltura dell'olivo, voluta e incentivata da Cosimo I, comincia ad espandersi nel XVIII secolo sulle colline fiorentine, ma, almeno per l'area mugellana, varie relazioni vicariali, fra Settecento e Ottocento ne lamentano la poca presenza. Si ha infatti difficoltà a sottrarre spazi al frumento o a generi usati per la panificazione, i proprietari non vedono un utile immediato perché la pianta sarà produttiva solo dopo dieci o dodici anni e il mezzadro, dal canto suo, non è sicuro di rimanere sul podere tanto da coglierne i frutti. L'Accademia dei Georgofili si fece promotrice di concorsi per diffonderne la coltivazione, far conoscere le malattie della pianta, e i vari modi di fare l'olio. Molte sono le cure da dedicare alle giovani piante, come avvertiva il Ronconi già nel Settecento:

"..venuto il principio di novembre dopo piantati nelle coltivazioni, si scalzino largamente all'intorno fino alle barbe principali, e tagliate tutte le altre venute per il fusto scalzato, si governino ciascuno con un corbello di sostanzioso concime, rincalzandoli senza calpestare, né pigiare la terra. Al tempo stesso a quelle piante venute dal vivaio si taglino tutti i rami troppo forti, che minacciassero confusione o togliessero il nutrimento alle buone rame, e a piantoni tanto di fusto alto che di fusto basso, si lascino due soli rami i più robusti, e meglio situati…Finalmente se mai per il gran freddo si seccassero gli ulivi riconoscasi esattamente fin dove arriva il male, ed essendo nelle sole rame, si seghino queste fino al vivo; ma se passasse ancora in tutto il fusto, lo che si distingue dalla buccia staccata dal legno con una certa muffarellina nericcia al di dentro di detta buccia, in tal caso si scavi la terra bene a fondo intorno alle ceppaie, e si taglino in modo che restino un piede sotto terra, e purgate esattamente da tutto il legname guasto e imperfetto, procurando di non farvi scheggiature, né lacerazioni, si governino, e si rincalzino con la medesima terra, che getteranno sortite capaci di produrre ulivi buoni, e robusti."
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La raccolta del frutto, che gli agronomi consigliano di fare precocemente, prima che le olive cadano in modo spontaneo, "…si fa cogliendo le olive a mano, che dicono brucare...In ogni infrantoio, volgarmente fattoio, si trovano alcune divisioni dette canti, ove si ammmontavano le olive e si trattenevano alcun tempo perché riscaldassero. Oggi da questi infrantoi questi canti sono spariti, ed è sperabile che si tolgano affatto per ogni dove; e si otterrà, se potranno persuadersi i contadini, i fattori, i padroni che non c'è assolutamente perdita nella quantità, e c'è guadagno nella qualità…".
La prima fase di produzione dell'olio è costituita dalla frangitura. La mola del frantoio era azionata da un animale che, bendato e attaccato ad una stanga di legno chiamata bindolo, girava intorno al frantoio.
"Si usano macine di alberese (calcarea compatta) scannellate o lisce, collo scopo di non ischiacciare i noccioli; il che si crede per alcun che influisca sulla qualità dell'olio, o sulla sua conservazione…Queste macine son mosse da forza animale, e qua si adopera un manzo…". La spremitura tradizionale consisteva nel disporre la pasta ottenuta dalla frangitura nei fiscoli a tasca che venivano sovrapposti e pressati sotto il torchio. Ce lo ricorda il Fanfani in un manuale dell'Ottocento: "La pasta delle ulive, uscita di sotto l'azione della macina, si ripone in gabbie, da altri dette bruscole, formate per il solito cogli steli di una qualità di giunco ammaccati e ravvolti in cordoncini, che a due a due si torcono insieme, a farne funicelle, che poi addoppiate, si intessono in maniera da formare due dischi del diametro di metri 0,60 circa…Queste gabbie, in numero da sette a nove, vengono collocate l'una sopra l'altra sulla lucerna dello strettoio, sotto l'azione del quale si estrae l'olio".

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Il liquido (olio e acqua) defluiva dalla pressa nell'inferno, una vasca posta al livello del pavimento, nella quale avveniva la prima separazione tra le sostanze oleose e l'acqua. L'olio era raccolto e posto in un recipiente per la decantazione. Il prodotto finale, destinato alla vendita, era conservato in barili da 15 o 30 litri, mentre quello per consumo familiare in un orcio invetriato. Nel frantoio era tradizione assaggiare l'olio nuovo con il pane arrostito (nel linguaggio popolare bruschetta, salunta, fettunta), come ricorda ancora il Fanfani: "…il fattore fece arrostire delle fette di pane bianchissimo, e calde calde portarle sulla tavola, dove erano degli spicchi d'aglio netti dalla loro rezzola, co' quali strofinate ben bene quelle fette, disse: "Signori, o le venghin qua, prendano, come farò io, la loro fetta, e la tengano laggiù in fondo allo strettoio, per farci colar sopra l'olio a quel mo' fresco, le ci mettano su un po' di pepe, mangino, e poi mi sapranno dire".

Le piante tessili

La famiglia del mezzadro provvedeva in proprio ad ogni bisogno compreso quello dell'abbigliamento e della biancheria utilizzando e trasformando la materia prima di origine vegetale o animale, ad esempio la canapa, il lino, la lana. Mentre la lana era fornita dalle pecore di cui era dotato ogni podere, almeno nella zona collinare e montana, il lino e la canapa erano coltivati nei campi, in seguito trattati in modo da estrarne le fibre che venivano filate ed infine ridotte a tela attraverso la tessitura.
Dalla pianta della canapa si ricavavano filamenti lunghi e sottili, la varietà coltivata in Val d'Arbia, ad esempio, raggiungeva l'altezza media di 2/2,50 metri. In questa zona si preferivano le aree pianeggianti in prossimità dei corsi d'acqua, predisponendo il terreno fino dal mese di gennaio con una vangatura profonda, raffinando poi con la zappa e con l'erpice, e concimando abbondantemente col concime pecorino e cavallino. La pianta era seminata fra marzo e aprile, mentre la raccolta avveniva tra la fine di luglio e i primi di agosto.

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Tolta la pianta dal terreno, riporta il Giuli, "scuotono la terra, ch'è aderente alle radiche, ne fanno delle manne, che legano un palmo di sopra delle radici con degli steli della medesima pianta, riuniscono quasi perpendicolarmente queste manne in gruppi, e le lasciano nel campo ad asciugare. Quando la maggior parte dell'acqua vegetativa dall'azione del sole è stata tolta alla canapa, allora la portano a macerare". Seguiva poi la macerazione: i mazzi di canapa erano lasciati per diversi giorni in una fossa o in una vasca con acqua stagnante o in acqua corrente per consentire alle fibre di separarsi dal fusto.
"Vi sono degli scavi più o meno profondi fatti nel terreno, in collina ove son delle polle, o scaturigini d'acqua, e nelle pianura nei campi situati in vicinanza degli argini dei fiumi, e queste pozze son dette macerine, per l'uso a cui le destinano. Distendono, e ricoprono con un primo strato di manne il fondo della macerina, dopo con un secondo, e così di seguito fino a che la macerina stessa è ripiena di canapa, e se l'ultimo strato di essa non fosse ricoperta bene dall'acqua, lo caricano con pietre, onde compressa da questo peso, venga ad esser dominata tutta dal liquido".
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Ad esempio, nel comune di Buoconvento (nella sede del Museo del Centro di documentazione del lavoro Contadino sono conservati vari attrezzi relativi al ciclo della canapa) esistevano diverse macerine gestite da alcuni proprietari che, in cambio dell'uso, ricevevano dai singoli utenti un compenso in canapa.
Si trattava spesso di fonti scavate nel terreno, poste a terrazze l'una sotto l'altra che si riempivano successivamente. Qui la canapa rimaneva per circa 10 giorni, poi veniva trasportata sull'aia ad asciugare al sole. L'operazione successiva si chiamava incigliatura che consisteva nello scaldare in forno per alcune ore la canapa in modo che la parte legnosa si distaccasse dalla fibra, operazione che veniva poi completata battendo il mannello a mano. Seguiva la maciullatura che separava definitivamente il legno dalla fibra e la pettinatura eseguita con pettini a denti via via più fini. Il mezzadro pensava a tutte le operazioni precedentemente descritte, a questo punto il prodotto netto veniva diviso a metà con il proprietario. La parte migliore, il tiglio, veniva filato per fare biancheria e indumenti, la parte più scadente, la stoppa, era usata per cordami, sacchi, ceneroni. A questo punto la canapa veniva filata con la rocca e ridotta a matasse
(annaspatura).

"…Le donne, finito di rigovernare e spazzare, si son rimesse all'ago, o alla calza, se non proprio alla rocca, come dettava il vecchio proverbio: "quando la mora si fa nera, un fuso per sera; quand'è nera affatto, uno…due… tre…quattro".
La filatura era compito delle donne e le occupava soprattutto quando, terminati i lavori più urgenti del ciclo del grano, era meno richiesta la loro presenza nei campi, come ricorda Casini:
Le matasse di canapa subivano poi l'imbiancatura con il ranno di cenere attraverso il bucato. Finalmente si poteva procedere alla tessitura a telaio. In ogni casa contadina vi era poi una donna capace di cucire almeno gli abiti più ordinari. Queste abilità del tessere e cucire erano molto apprezzate nelle donne e chi le possedeva trovava più facilmente marito. Pietro Fanfani riporta un ipotetico dialogo del cozzone (uno che combina i matrimoni) con un giovanotto in cerca di moglie: "…ci ho una ragazza proprio per te; adatta alla tu' famiglia: buona per andar n'iccampo, per far per casa: la sa cucire le su' camicie: la tesse…insomma ti dico, l'è proprio per casa tua".

L'allevamento del bestiame

Oltre alla coltivazione dei campi, grande cura era dedicata al bestiame da lavoro: i "bovi". Questi alleviavano la fatica del contadino tirando l'aratro e, attaccati al carro o alla treggia consentivano il trasporto della paglia, del fieno, del legname, delle bigonce ed erano l'unico mezzo di trasporto a disposizione anche per le persone. I bovini erano l'elemento economico più importante del podere, infatti da questi era determinato in larga misura il saldo annuale del conto colonico. Durante il lavoro dei campi i bovi erano uniti fra loro con il giogo, a questo era attaccata la stanga dell'attrezzo da tirare. In occasione delle fiere o della festa di Sant'Antonio le bestie erano abbellite con nastri e pendagli colorati. Ogni contadino allevava poi il maiale da cui ricavava salumi ed insaccati che, conservati in luogo fresco, avrebbero fornito la carne per tutto l'anno.

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Ogni famiglia allevava poi animali da cortile ed era compito esclusivo delle donne che commerciavano in uova e pollame con la mediazione dei trecconi che passavano dalle case e che rivendevano questi prodotti ai mercati con un certo guadagno. Ogni anno veniva data al padrone una parte dei prodotti del pollaio, secondo quanto stabilito dai patti colonici.

La caccia

Una delle tante integrazione dell'economia rurale era la caccia sia per migliorare la dieta quotidiana povera di carne, sia per ricavarne un qualche reddito vendendo la selvaggina. Vi era poi una caccia alle specie dannose per le coltivazioni o gli animali domestici. Reti, panie, trappole, lacci: erano questi i mezzi più in uso. La più diffusa era forse la pania, una colla ricavata dal vischio spalmata su asticelle, su cui rimanevano prigionieri gli uccelli. Si usava a questo scopo un telaio di grandi dimensioni, chiamato diavolaccio, fatto come una grande ragnatela al centro del quale si trovava una nicchia, qui era sistemata una luce o un uccellino che servivano da richiamo. Contro i roditori e gli animali nocivi si usavano invece trappole o tagliole. La ricchezza della fauna sia stanziale che di passo aveva spinto molti proprietari di terreni (ma in Chianti anche i mezzadri) a costruire delle strutture fisse per la caccia: i paretai o ragnaie di cui ancora oggi la toponomastica conserva la memoria. Nel comune di Palazzuolo se ne possono ricordare ben 33.

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Il paretaio, costruito quasi sempre su un poggio o valico, era costituito da un capanno con due vani: una per le gabbie degli uccelli da richiamo, l'altra per i cacciatori. La zona di caccia consisteva in un prato di un centinaio di metri quadrati con due boschetti costituiti da siepi di carpine che formavano un rettangolo dell'altezza di metri 1,50/1,60. Nel prato erano stati selezionati ginepri, bosso e carpine. Lungo i lati più lunghi del boschetto erano scavati profondi fossati in cui si nascondevano grandi reti (ragne) di filo di canapa fissate a lunghe staffe di legno e comandate da molle e pesi. Quando gli uccelli si avvicinavano al passo, i richiami cominciavano a cantare attirando i branchi di passaggio che si posavano sul boschetto. Il cacciatore, nascosto nel capanno, al momento opportuno azionava la leva di comando delle reti che, passando una sopra l'altra andavano a coprire completamente il boschetto e ad imprigionare gli animali. La stagione di caccia nel paretaio cominciava a settembre e si concludeva a novembre. In un paretaio si potevano catturare fino a 200 uccelli al giorno e i cacciatori, dopo averne catturati 100, si affacciavano al valico e suonavano il corno comunicando così a tutti la loro bravura. Una parte degli uccelli catturati era consumata in famiglia, l'altra venduta al mercato. Il poeta mugellano Filippo Pananti così descrive il paretaio nella sua omonima opera in versi:

Sul posto a' paretai meglio adattato
varia degli eruditi il sentimento:
chi brama il pian, chi vuol sito elevato,
questi teme la nebbia, e questi il vento;
né basso, né tropp'alto il farai tu,
nel mezzo suol consister la virtù;


devi porti all'imbocco delle foci,
acciò i volanti eserciti sonore
degli uccelli di gabbia odan le voci;
sfuggi le vie, le balze, ed il romore,
sega ogni albor d'attorno, o almen la vetta,
o qualche spauracchio vi si metta.


La piazza coprirai d'erbosi pioti,
di bossoli e ginepri la circonda, fa' il boschetto di carpine, e si noti
che abbia belle posate, e cupa fronda:
se è finto tutti i dì nuovo si faccia
lontan dalla bocchetta venti braccia.

D'altra parte catturare la selvaggina con reti è pratica antica. Nel Mugello, ricco di animali selvatici, secondo quanto riferisce Giovanni Morelli nella sua cronaca, questo tipo di caccia è attestata fino dal Medioevo: un documento del 1380 informa che era stata costituita una società per la caccia lungo il fiume Sieve. La società non era cosa nuova, ma, come afferma l'atto notarile, rinnovava un'antica consuetudine. Le azioni sociali, fra le quali dovevano essere divisi gli oneri e gli utili dell'impresa, erano 13 e ciascuna quota doveva versare 3 fiorini d'oro per le prime spese d'impianto di forche e reti per prendere gruci, anigretti, ocioni ed altri simili uccelli nel fiume o sopra il fiume Sieve.
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Il podere di montagna

Mano a mano che ci si allontana dalle zone di pianura e di bassa collina per addentrarsi nella zona appenninica la presenza del frumento, dell'olivo, degli alberi da frutto, della stessa vite diventa sempre più rarefatta a causa dei terreni essenzialmente arenacei, dei lunghi inverni e delle eccessive pendenze.

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Sulla montagna appenninica, ricca di pascoli e boschi, la vocazione dei poderi era prevalentemente rivolta all'allevamento e alla produzione del formaggio, allo sfruttamento del bosco per la legna e il carbone, alla coltivazione del castagno da frutto. Il formaggio prodotto sull'Appennino del Mugello risultava particolarmente pregiato , oltre che per gli ottimi pascoli, per l'impiego dello zafferano d'Aquila, il poco sale, il poco caglio animale, e la freschezza della caciaia e delle lastre di pietra sulle quali si collocavano i caci, che rendevano lenta la loro stagionatura.
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Queste risorse, non sempre sufficienti alla sopravvivenza di una famiglia, soprattutto se numerosa, erano integrate dalla migrazione stagionale che spingeva ogni anno i montanini verso la Maremma a cercar lavoro come pastori, carbonai, braccianti agricoli, sterratori. Durante l'inverno quando le altissime nevi seppelliscono le fontane, i ruscelli, e quasi la casa colonica, non vi è pascolo per gli animali i quali devono necessariamente svernare nelle maremme o scendere nelle valli interne; chi, della famiglia, è rimasto in montagna si ciba di latte e formaggio, fornito da sette o otto capre, e di farina di castagne. Sulla montagna appenninica, ricca di pascoli e boschi, la vocazione dei poderi era prevalentemente rivolta all'allevamento e alla produzione del formaggio, allo sfruttamento del bosco per la legna e il carbone, alla coltivazione del castagno da frutto. Il formaggio prodotto sull'Appennino del Mugello risultava particolarmente pregiato , oltre che per gli ottimi pascoli, per l'impiego dello zafferano d'Aquila, il poco sale, il poco caglio animale, e la freschezza della caciaia e delle lastre di pietra sulle quali si collocavano i caci, che rendevano lenta la loro stagionatura.
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Queste risorse, non sempre sufficienti alla sopravvivenza di una famiglia, soprattutto se numerosa, erano integrate dalla migrazione stagionale che spingeva ogni anno i montanini verso la Maremma a cercar lavoro come pastori, carbonai, braccianti agricoli, sterratori. Durante l'inverno quando le altissime nevi seppelliscono le fontane, i ruscelli, e quasi la casa colonica, non vi è pascolo per gli animali i quali devono necessariamente svernare nelle maremme o scendere nelle valli interne; chi, della famiglia, è rimasto in montagna si ciba di latte e formaggio, fornito da sette o otto capre, e di farina di castagne.
"La sorgente del Rovigo è coronata di pascoli o bandite, ove pasturano vacche, cavalli e circa 1500 pecore che nel verno discendono nelle Maremma toscana. Il resto del corso del Rovigo è fiancheggiato sulla destra da poderi; sulla sinistra, da pascoli e masserie. In questo bacino, sulla destra del Rovigo, è situato il podere di Ca' di Vagnella. La sua figura è un ferro di cavallo, il cui arco posa su Carzolano, e il lato opposto sul Rovigo, ed è tagliato in mezzo dalla strada mulattiera. Presso la strada è la casa colonica e alcuni terreni lavorativi, altri in diverse distanze, e tutti all'intorno i pascoli, le faggete e le praterie. Il podere è tutto immerso nella regione del faggio, meno il castagneto e un pezzo di bosco a cerri, situati alla distanza di ¾ di miglio sotto la zona del faggio…La casa colonica è composta presentemente di tre fienili, di una vasta cucina sovrapposta alla stalla delle vaccine, di tre camere sovrapposte alla stalla delle pecore,…di altre due stallette con pozzo all'interno, della caciaia, e di altri piccoli annessi. All'intorno avvi la mandria, l'aia lastricata, e, alla distanza di 200 braccia, la fonte e la burraia".
Il podere di Ca'di Vagnella, posto sull'Appennino di Palazzuolo, può essere assunto come caso emblematico. Alla metà dell'Ottocento era fornito di 65 pecore, 13 agnelle, 5 vacche e 3 vitelli; il terreno seminativo era per metà a grano e per metà ad orzo, una piccola parte a patate introdotte all'inizio del secolo, il resto a pascolo. Gli unici alberi da frutto che potevano vivere a queste altitudini erano il ciliegio, il pero e il noce, questa pianta però raramente portava a maturazione il frutto. Ecco la descrizione del podere, fatta da Fabroni intorno al 1840:
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Vivere di pan di legno e di vin di nuvoli


Il chiaro riferimento di questo proverbio alle castagne e all'acqua informa di cosa si cibasse il montanino, continuamente in lotta con la fame, specialmente negli anni di cattivo raccolto. Infatti, Il montanino coglie poco grano e la fidanza l'ha nella castagna, e se pur la castagna va fallita, la messe al montanino gli è finita. Le strofe di questa canzone sintetizzano efficacemente il ruolo ricoperto dal castagno nella vita delle popolazioni della montagna appenninica, in questo caso pistoise, che, per tutto l'Ottocento e diversamente da oggi, è stata intensamente abitata. Non è un caso quindi se a Ortignano-Raggiolo, sul versante casentinese del Pratomagno, si sia operato il recupero di alcuni manufatti (seccatoio, mulino, reperti di uso comune per la raccolta e conservazione delle castagne) relativi a questo tipo di economia con la creazione di un percorso museale sulla civiltà del castagno.

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L'albero del pane, il pane dei poveri, il pan di legno, questi appellativi popolari con cui si definiva il castagno, la farina che se ne estraeva, la polenta che nei mesi invernali costituiva la base dell'alimentazione sono altresì molto significativi. Perfino i bambini nascevano nei buchi dei castagni; io, racconta Antonio Poli, sarei nato nel buco del castagnone del prato dei Berti. Ogni podere dell'Appennino aveva alcuni ettari di castagneto da frutto che veniva coltivato. Nel Mugello e nella Romagna Toscana prevaleva il marrone domestico fiorentino, la castagna selvatica, le castagnole (una qualità di castagna precoce), mentre a Raggiolo, sul versante casentinese del Pratomagno, si trovavano anche le castagne pistolesi e raggiolane, qualità particolarmente adatte alla produzione della farina. I lavori nel castagneto, legati al ciclo vegetativo della pianta, erano un po' gli stessi in ogni zona, anche se chiamati con nomi diversi: in inverno si potavano le piante, in primavera si eseguivano lavori di innesto, nella tarda estate si facevano lavori di ripulitura del terreno per rendere più agevole e produttiva la raccolta che sarebbe iniziata a fine settembre. Il brano letterario riportato di seguito, tratto dal volume "Maremma amara", si riferisce alla realtà della montagna pistoiese:
 
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"Uomini e donne saranno per tutt'ottobre persi dietro ai marroni - il giorno fuori a raccattare, e la sera, in casa, a scegliere i migliori, da vendere - e già quelli lavorano nei castagneti a sterpare e ripulire e munir di roste il terreno su cui la rossa manna cadrà via via, mentre quelle cuciono, rammendan, rattoppano sacchi e balle per il bosco e il mercato…Partivano che appena era giorno, dopo una breve colazione che terminavan per strada coi loro panieri al braccio e nei panieri i sacchi da riempire; arrivavano a giorno chiaro nel marroneto; accendevano un po' di fuoco, si davano una scaldatina alla fiamma e via per il bosco a raccogliere conversando e cantando…".
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Nel periodo della raccolta i proprietari non abbandonavano il castagneto per nessuna ragione, tanto che il parroco di Palazzuolo sul Senio celebrava la messa domenicale alle quattro del mattino per i raccoglitori di marroni. Gran parte del prodotto veniva conservato sotto forma di farina dolce che, pigiata in appositi cassoni, sarebbe stata consumata durante l'inverno. Prima di essere portate al mulino per la macinatura, le castagne erano seccate in un apposito locale, il seccatoio. Si trattava di una costruzione in pietra, l'altezza poteva variare a secondo delle situazioni (a Palazzuolo era alta circa quattro metri) con una porta in basso ed un'apertura in alto. A circa due metri di altezza era sistemato il graticcio, una specie di solaio fatto con travi di castagno: qui attraverso la finestra venivano depositate le castagne, mentre in basso era acceso un fuoco che restava acceso giorno e notte sotto il controllo del contadino, in modo tale che seccasse sì i marroni, ma senza bruciarli. Al termine dell'essiccazione si procedeva alla separazione della castagna dal guscio.
A Palazzuolo questa operazione veniva chiamata pilatura: tutti i membri della famiglia, riempita di marroni ancora caldi una sacchetta, la batteva con forza su di un ceppo. Anche le castagne erano divise a metà con il padrone. A Raggiolo la stessa operazione si chiamava dirugghiatura ed era condotta in modo diverso: si riempivano di castagne apposite ceste e vi si saltava sopra con degli zoccoli di faggio provvisti di lunghi chiodi. Il movimento era ritmato da questa canzone:

Pesta Menghino, ti darò la mela
Menghino 'un vol pesta' perché 'unn è in vena.
Canta Menghino, ti darò la noce
Menghino 'un vol canta' perché 'unn ha voce.

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Andare in Maremma

L'altra grande risorsa della montagna, l'allevamento, poteva reggersi soltanto con l'integrazione dei pascoli maremmani nel periodo invernale. La costa, specialmente tirrenica, in gran parte dominata dall'acquitrino e dalla malaria e per questo spopolata, è stata una grande riserva di pascoli fino alla metà dell'Ottocento, consentendo la sopravvivenza alle genti della montagna; questo equilibrio si è mano a mano incrinato con l'avvio della bonifica della Maremma e con le riforme leopoldine di fine Settecento. Afferma il Fabbroni (1840):

"…siamo su Carzolano, [in Alto Mugello, tra Senio e Santerno] sul rialto che innalzovvi l'Inghirami a 2012 braccia di elevazione. Ai piedi ti si sprofonda un abisso, e le croci che tu vedi ricordano che le valanghe vi hanno rapito il passeggero. Lì presso la Val dell'Inferno, e il Rovigo colla sua acqua gelata che balza di scoglio in scoglio tra due rive serrate, angustissime; casipole sparse a gruppi, e sovr'esse scogliere e precipizi; e sotto, contadini proprietari che attendono ai piccoli campi, alle piccole mandre, tranquilli quanto i loro abituri: miniatura di una veduta svizzera. E quella popolazione vi campa, e si aumenta col poco grano, colle patate, e colle molte castagne che vi raccoglie.... Intanto le accette de' carbonai, l'abbaiar de' cani, fischi dei pastori richiamano l'attenzione del passeggero ad oggetti e piaceri più vicini. Ampie faggete che cadono, ed altre che sorgono, di cui si è impossessata a gran profitto l'economia rustica: vaste praterie, immense pasture ove pascolano mandre di cavalle, di vacche, di capre e di pecore, reduci dalle Maremme toscane. Sparse per quelle solitudini tu vedi delle piccole capanne che fumano, e all'intorno tante serrate che ti sembrano di lontano piccoli orti. Sono i diacci de' pastori colle loro mandre. Tu vi entri e vi trovi i pastori affaccendati a lavar secchi, a preparar legna, a fabbricare il formaggio, vestiti o di rascia verde, tanè che il Machiavelli chiamò color romagnolo".
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Il pendolarismo è la caratteristica della gente della montagna che, se non fa il pastore fa il carbonaio, mestiere che pratica alternativamente in montagna o nella Maremma, da cui si può anche non tornare.

Il maremmano
con l'accetta in ispalla e'l capo basso
quel montanin s'avvia per le Maremme;
du' panni in un fagotto; in tasca 'l Tasso:
ecco tutto 'l su lusso e le su' gemme!

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Il lavoro del bosco

Il taglio del bosco, sotto forma di diradamento, consisteva nell'abbattere le piante più grosse. Questa operazione si chiamava sterzatura ed avveniva ogni 5-6 anni; ogni 12 anni circa si faceva invece il taglio raso che consisteva nell'abbattimento degli alberi lasciando una pianta da seme (matricina) ogni 10-12 metri. La legna era poi tagliata secondo una misura convenzionale e sistemata in cataste che il vetturino avrebbe trasportato su una strada carrozzabile con l'ausilio di alcuni muli. Le ramaglie più fini erano legate a fascine e sarebbero servite per avviare il fuoco o scaldare il forno. La legna che sarebbe stata utilizzata per far carbone era raccolta intorno alla "piazza", spazio circolare dove sarebbe stata costruita la carbonaia.

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Il lavoro del bosco prevedeva una serie di specializzazioni: il tagliatore, il carbonaio, il vetturino. Il lavoro del carbonaio era molto difficile sotto il profilo tecnico, frutto di un lungo apprendistato: bisognava sapere accatastare la legna, conoscerne la stagionatura, sistemare i camini, dosare la copertura finale con terra erbosa, e infine capire dal colore del fumo la fase della cottura. Per questo il carbonaio girava anche di notte, nel bosco, con una lanterna, a sorvegliare le varie carbonaie. Il ciclo del carbone lo impegnava a vivere almeno sei mesi alla macchia, lontano dalla famiglia e dalla casa, in condizioni di vita piuttosto precarie.
Si raccontano tante leggende sulla vita del carbonaio, sulle lunghe notti trascorse al chiaro di luna sui sentieri di montagna con il lume acceso mentre andava a controllare le carbonaie. Il brano seguente è tratto da "Il taglio nel bosco" di Cassola: 44
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"E' dura la condizione del carbonaio, cominciò l'uomo. Cosa credete voi taglialegna? Che sia peggio la vostra?. A voi non accade mai di stare in piedi settantadue ore di seguito. Lavorare nei boschi è la sorte peggiore che possa capitare ad un uomo, ma fra il taglialegna e il carbonaio c'è differenza. La vostra è ancora una vita da cristiani. E' un lavoro faticoso, ma siete in comitiva e la sera vi mettete intorno al fuoco a far due chiacchiere. Guardate le mie mani. Voi le avete screpolate ma pulite: e invece le mie, vedete? Il carbone s'insinua sotto la pelle e non va più via."

Non solo cultura materiale

Gli attrezzi conservati in questi musei vengono definiti oggetti della cultura materiale, eppure, a ben guardare oltre la forma e i materiali con cui sono stati realizzati (generalmente poveri e reperiti sul posto), offrono molte informazioni intorno all'organizzazione del lavoro, ai cicli produttivi, alla conoscenza dell'ambiente naturale, ma anche alle pene, alle speranze, all'orgoglio del contadino. Ce lo indicano la croce e le immagini votive sempre presenti negli ambienti domestici e nella stalla, i tabernacoli posti ai crocicchi, le croci campestri. I momenti più importanti della vita quotidiana o del ciclo produttivo venivano sacralizzati: ad esempio una croce era incisa sulla bocca del forno; nel granaio era appesa una croce da barca, sarebbe stata posta in cima al cumulo dei covoni (la barca) in attesa della trebbiatura. Molto ricorrenti le invocazioni a Dio, alla Madonna e ai santi per affrontare le difficoltà esistenziali e la precarietà del mondo agricolo, fortemente dipendente dall'andamento delle stagioni. Vi sono poi tanti segni della passione con cui il mezzadro allevava e custodiva le bestie per eccellenza, i buoi da lavoro. Oltre alle comuni cure giornaliere, il contadino era in grado di intervenire personalmente a prestare le prime cure all'animale ammalato (una valigetta con alcuni strumenti è conservata nel museo di Grezzano), li abbelliva con pendagli e fiocchi rossi nei giorni di festa e in occasione delle fiere, per mostrare, con orgoglio, animali sani e ben tenuti. Il libretto colonico poi, poteva essere spesso sinonimo del suo indebitamento per le prestanze e quindi della maggiore dipendenza dal padrone e dal fattore, dell'umiliazione derivata dal chiedere, dell'ossequio formale con cui ci si presentava allo scrittoio, con il cappello in mano, una volta l'anno.

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