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Oltre alla realizzazione del percorso,
a M. Meini sono da attribuire le traduzioni, dagli originali in lingua
inglese, dei brani qui riportati ad eccezione di quelli di Edward Gibbon,
tratti dal volume E. Gibbon, Viaggio in Italia,
Edizioni del Borghese, Milano, 1965. Di rilevanza è il fatto che
i brani riportati in questo percorso vengono per la prima volta pubblicati
in lingua italiana.
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L'itinerario propone
un viaggio con la mente nella Toscana settecentesca. La lente attraverso
cui questo viaggio viene presentato è quella dei viaggiatori inglesi del
periodo dell'Illuminismo, per i quali il Grand Tour nel "Continente" rappresentava
il massimo coronamento degli studi classici, intrapresi obbligatoriamente
da ciascun giovane dell'aristocrazia. E' dunque attraverso le pagine più
significative dei loro diari di viaggio che questo itinerario condurrà alla
scoperta di una Toscana del passato, la cui immagine stereotipata è tuttavia
giunta fino a noi. |
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Il Grand Tour
Questa espressione venne usata per la prima volta da Richard Lassels nel
suo "Voyage of Italy" pubblicato nel 1670 ed ebbe un notevole successo, tanto
da rimanere di moda - se così si può dire -, fino all'Ottocento. Il Grand
Tour costituiva il momento conclusivo dell'educazione umanistica inglese e
consisteva in un viaggio, che poteva durare alcuni mesi o addirittura anni,
attraverso vari Paesi europei come la Francia, la Svizzera, La Germania, le
Fiandre, ma la cui meta classica era l'Italia, e in particolare Roma. Ecco
perché in molti casi si parla semplicemente di un "viaggio in Italia", sebbene
in realtà vengano visitati anche altri Paesi. Il Grand Tour, almeno fino alla
seconda metà del '700, era dunque la meta finale, di completamento e affinamento
di chi era destinato a diventare parte della classe dirigente inglese e, se
all'inizio questo spettava solo al ceto della nobiltà, successivamente il
fenomeno interessò sempre più la ricca borghesia in ascesa. Alcuni tra i principali
esponenti della cultura europea di allora ebbero modo di intraprendere questa
esperienza e di lasciarci interessanti descrizioni in diari di viaggio che
divennero spesso i veri e propri best-sellers dell'epoca.
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Prima
che la sensibilità romantica si imponesse nella cultura europea, con la conseguente
crescita d'importanza data al sentimentale e al personale, il più importante
scopo del viaggiare era la conoscenza dell'umanità, pertanto i diari di viaggio
fornivano informazioni sui luoghi visitati e sui popoli che li abitavano - se
pure in maniera non esente da forzature ideologiche. I Grand Tourists nei loro
resoconti rispondevano dunque alla richiesta di fatti reali tipica di un'età
filosofica che prevedeva ancora il viaggio da un punto di vista pedagogico come
momento educativo e diventano essi stessi filosofi nel collezionare e commentare,
ad uso del lettore, le informazioni ottenute. |
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Gli itinerari classici del viaggio in Italia
Il Grand Tour di un inglese iniziava a Dover, dove si imbarcava su un vascello
che in circa dodici ore lo portava a Calais. Dopo avere attraversato la Francia
e talvolta anche la Svizzera, l'ingresso in Italia avveniva, a seconda della
provenienza, in Piemonte (attraverso i passi alpini di Tenda, Monginevro,
Moncenisio o Piccolo S.Bernardo) o in Lombardia (attraverso quelli del Sempione,
S.Gottardo, S.Bernardino, Spluga) Ma l'itinerario ritenuto classico, e quindi
più seguito,era quello che attraversava la Francia lungo il percorso che da
Calais portava a Parigi (dove era prevista una sosta anche piuttosto lunga);
da qui, attraverso la valle della Loira e lungo il corso del Rodano, si arrivava
a Lione, un'altra città di sosta; dopodiché‚ si piegava ad est verso la Savoia
e, passando per Chambery e Lanslebourge, si arrivava ai piedi del Moncenisio,
dove si sarebbe ripetuto il rituale dello smontaggio delle carrozze, che venivano
caricate a pezzi sui muli e rimontate a valle dall'altro versante. Se, invece,
da Lione si continuava a dirigersi a sud della Francia, le possibilità di
ingresso in Italia erano tre: il passo di Tenda; la via della Cornice; o,
via mare, da Marsiglia o Nizza, verso Genova o Livorno. Quest'ultima era la
più comune, anche se non la più amata.
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Una volta in Italia,
si poteva decidere di trascorrere un primo periodo a Venezia, oppure di
attraversare piuttosto velocemente il tratto padano (Piacenza, Parma, Modena,
Bologna) e puntare direttamente a sud verso Roma, meta privilegiata del
viaggio. Per questo, c'erano tre strade che si potevano percorrere: quella
occidentale, detta "Francesca" o "Francigena", che per Piacenza e il passo
della Cisa, portava a Lucca, Siena e Viterbo. Quella centrale, che aveva
inizio a Bologna e attraversando il passo del Giogo, prima, e della Futa,
poi, toccava Firenze e si riuniva, a Siena, alla Via Francesca (l'attuale
Via Cassia) . Quella orientale, che, partendo da Bologna, per la Via Emilia
giungeva a Fano e di qui, per la Via Flaminia, a Spoleto e Terni. C'era
inoltre, la possibilità che, una volta giunto a Firenze, il viaggiatore
si ammettesse nella valle dell'Arno fino ad Arezzo e quindi arrivasse a
Roma proseguendo per Perugia, Spoleto, Terni. |
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Da Roma, era prevista un'escursione a Napoli e dintorni. Ed era questa, per
tutto il XVIII secolo, tranne rare eccezioni, la città più meridionale toccata
dall'itinerario del Grand Tour. Nel risalire la penisola, era molto comune il
percorso che, da Roma a Venezia, prevedeva la variante verso il Santuario di
Loreto, attraverso il passo di Colfiorito, Tolentino, Macerata e poi proseguiva,
lungo la costa adriatica, toccando Ancona, Ravenna, Bologna e infine arrivava
a Venezia. Dopo la visita ad altre città venete, come Verona e Vicenza, si riprendeva
la via di Milano o Torino e dei passi alpini. Il ritorno in patria avveniva
o riattraversando la Francia, o risalendo la Svizzera e poi visitando città
della Germania, delle Fiandre e dei Paesi Bassi. |
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In
una pagina del Nouveau Voyage d'Italie (1691), che tratta esplicitamente gli
argomenti dell'itinerario e dei tempi di stazionamento nelle varie città, cosi
si esprime il Misson: |
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"E'
praticamente impossibile stabilire il percorso di coloro che vogliono effettuare
il viaggio in Italia, poiché‚ ciò dipende dal passo attraverso il quale
intendono effettuare il |
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loro ingresso e dal tipo di soggiorno che scelgono di fare. Il consiglio
generale che possiamo dar loro è di studiare bene le carte e di disporre
il viaggio in modo da trovarsi per gli ultimi giorni di carnevale a Venezia,
la Settimana Santa a Roma e l'ottava del S. Sacramento a Bologna. Evitino
soprattutto di farsi sorprendere a Roma dal periodo della canicola; attraversino
l'intero paese e ne vedano quante più zone possibili e non facciano due
volte lo stesso percorso. Se non si sono potuti recare a Venezia nel corso
del carnevale, dovranno almeno esserci per la festa dell'Ascensione". |
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Nel
XVIII secolo la durata media del viaggio in Italia era di circa un anno; di
un anno e mezzo o due quella del Grand Tour: Quest'ultimo si andò infatti abbreviando
col passare dei secoli: dai tre anni del 1600, a poco a poco si arriva ai sei
- otto mesi del 1800. Il periodo raccomandato per varcare le Alpi era la fine
del l'estate (quasi sempre settembre), e alle soste nelle grandi città si dedicavano
per lo più i mesi invernali: l'autunno a Firenze; l'inverno vero e proprio a
Roma (dove era assolutamente sconsigliato fermarsi in estate, per paura della
"mala aria") e a Napoli; la primavera dell'anno successivo a Venezia e in altre
città del nord Italia. Il soggiorno romano era quasi sempre il più lungo: le
feste religiose costituivano una forte attrattiva anche e, forse, soprattutto
per i viaggiatori protestanti, che sempre meno rischiavano di incorrere nei
rigori dell'inquisizione. Anzi, all'inizio del Settecento i controlli si erano
fatti molto meno severi ed era venuto meno quel clima di ostilità nei loro confronti
che aveva caratterizzato il secolo precedente. |
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Riguardo al modo di
viaggiare, c'erano diverse possibilità di scelta: dal viaggio nella propria
carrozza appositamente attrezzata e con tanto di seguito ed equipaggio personale,
al viaggio a piedi (il cosiddetto "Pedestrian Tour"). Ma, limitandosi a
quelli più comuni, c'erano tre modi di viaggiare per terraferma: noleggiare
od acquistare una carrozza una volta giunti in Continente, per poi riconsegnarla
o rivenderla al ritorno; oppure affidarsi alle diligenze di posta; o,infine,
mettersi nelle mani di un "vetturino". |
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In molti casi il viaggiatore di medie possibilità economiche acquistava la
propria carrozza a Calais e la rivendeva al momento di riattraversare la manica,
a viaggio compiuto. Ma gli altri due restavano i metodi più usati. L'uso delle
diligenze di posta era il più economico e veloce; presentava, tuttavia, una
serie di inconvenienti, come la limitatezza dei bagagli da portarsi appresso,
il vincolo degli orari e la disorganizzazione che caratterizzava spesso i
servizi postali. La forma più comune di viaggio era, dunque, quella di noleggiare
una carrozza con vetturino, che sollevava il viaggiatore da diverse incombenze.
Accordandosi col vetturino per una certa somma, questi garantiva il trasporto
del passeggero e dei suoi bagagli, il cambio dei cavalli alle stazioni di
posta, vitto e alloggio lungo il percorso, e la sosta in luoghi scelti dal
viaggiatore. Era, inoltre, opinione diffusa che i clienti di un vetturino
difficilmente avessero noie con briganti e banditi. E c'era una ragione per
questo, che pian piano si fece strada nella mente di molti viaggiatori inglesi:
che, cioè, vi fosse un accordo tra i due e che, spesso, questo accordo si
trasformasse in congiura ai danni dei poveri stranieri. A confermarli nella
convinzione che, in fondo, non vi fosse molta differenza tra vetturini e banditi
erano, d'altronde, le frequenti angherie che questi viaggiatori erano costretti
a subire, quando provavano a ribellarsi al mancato rispetto degli accordi
presi.
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La mappa degli itinerari toscani
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E' evidente che la Toscana costituiva una tappa d'obbligo del viaggio
in Italia: essa infatti doveva essere percorsa comunque, durante l'itinerario
di andata o in quello di ritorno. Una volta in Toscana, Firenze era quasi
sempre il luogo privilegiato per la sosta più prolungata e da lì ci si
spostava per la visita ai dintorni di Firenze o nelle altre maggiori città.
Lo spazio vissuto di questi viaggiatori coincide infatti esclusivamente
con lo spazio urbano e, se qualche visita viene fatta alle ville di campagna
dell'aristocrazia fiorentina, è pur vero che queste ville non rappresentano
altro che la proiezione della città nella campagna circostante.
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D'altronde
i viaggiatori inglesi riflettono una situazione reale di squilibrio fra
città e campagna che era il risultato della politica territoriale ed economica
portata avanti dai Medici. Allo stesso modo essi riflettono un altro squilibrio
realmente esistente: quello fra il "cuore" del Granducato - Firenze e il
suo contado - ed il restante territorio regionale. Risulta chiaro nelle
descrizioni fatte il processo di aggregazione compiuto di volta in volta
dalla capitale a danno dei territori circostanti: Pisa e soprattutto Siena
vengono viste nelle loro vestigia di antiche repubbliche decadute proprio
in seguito alla perdita di libertà per mano dei fiorentini e per quelle
città sottomesse scatta un sentimento di solidarietà in questi viaggiatori
illuministi orgogliosi di provenire da una società culturalmente avanzata,
sorretta da un stabile monarchia costituzionale capace di garantire il mantenimento
della libertà insieme al massimo benessere materiale. |
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Nel Settecento, Firenze si imponeva chiaramente quale centro di gravità della
vita regionale, come ben risultava dalla disposizione delle principali arterie
viarie all'interno del Granducato. Così, afferma Leonardo Rombai, "la viabilità
maggiore della Toscana dipartiva quasi tutta da Firenze: ponendo la città al
centro di un ipotetico cerchio, sei grandi arterie stradali si diramano come
altrettanti raggi verso zone di interesse vitale per lo stato, quali Pisa, Siena,
Arezzo, la Romagna, il Mugello e per questo Bologna, la Valdinievole e Altopascio
con il padule di Bientina attraverso Pistoia". Tra le città toscane, Firenze
e Siena rappresentavano le tappe fisse, con la differenza che, mentre alla prima
si dedicavano alcuni mesi, nella seconda ci si fermava al massimo per un paio
di giorni (un'eccezione è costituita da James Boswell, il cui resoconto non
ci risulta, per altro, affatto utile perché strettamente limitato, per la tappa
senese, alle "avventure galanti" dell'autore). Le altre città del "minitour"
toscano sono Pisa, Livorno e Lucca (Pistoia viene appena toccata, nel viaggio
da Firenze a Lucca, e raramente nominata; Arezzo non viene addirittura presa
in considerazione). |
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Gli
itinerari non sono fissi, dal momento che queste città non sono tappe prefissate
del viaggio italiano e, anzi, capita spesso che alcune di loro vengano sacrificate,
così che ogni viaggiatore sceglie l'itinerario che più si accorda con altre
esigenze del proprio viaggio. L'itinerario forse meglio organizzato è quello
di Edward Gibbon, il famoso autore di "The Decline and Fall of the Roman Empire",
che ci ha lasciato un bellissimo quadro paesistico dei territori attraversati
e che qui riportiamo. Egli, dopo essersi fermato a Firenze per un paio di mesi,
prosegue il viaggio verso Roma organizzandosi in un modo tale da poter toccare
tutte quelle che erano considerate le maggiori città toscane, in questa sequenza:
Firenze, Pistoia, Lucca, Pisa, Livorno, Siena. |
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Martedi,
19 giugno 1764:
Bologna-Firenze - "Siamo partiti da Bologna alle tre del mattino
per attraversare una terza volta l'Appennino. Non sono montagne alte, ma
piuttosto colline larghe e molto estese che occupano molto terreno. Nulla
è più triste del colpo d'occhio che offrono; vi si incontra appena, di tanto
in tanto, qualche brutto villaggio, né vi si vedono quei pascoli ricoperti
di greggi che rallegrano un poco lo spettacolo della maggior parte delle
montagne."
Giovedì, 23 agosto 1764: Firenze - "Certamente
da questa torre [il Campanile] si gode una bellissima visuale. Tutti i principali
edifici di Firenze, le mura di cinta della città, la montagna di Fiesole,
Prato, il corso dell'Arno e i paesi circonvicini si mostrano con la nitidezza
di una grande carta geografica. Si vedono al di sopra della città i colli
dell'Appennino e sotto una bellissima pianura. Pistoia è un poco nascosta
in fondo a un valloncello. |
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Giovedì,
23 agosto 1764: Firenze - "Certamente
da questa torre [il Campanile] si gode una bellissima visuale. Tutti i principali
edifici di Firenze, le mura di cinta della città, la montagna di
Fiesole, Prato, il corso dell'Arno e i paesi circonvicini si mostrano con
la nitidezza di una grande carta geografica. Si vedono al di sopra della
città i colli dell'Appennino e sotto una bellissima pianura. Pistoia
è un poco nascosta in fondo a un valloncello.
Sabato, 22 settembre 1764: Firenze-Pistoia-Lucca
- "Da Firenze a Pistoia si attraversa per venti miglia una bella pianura.
Oltre Pistoia, il paese si restringe di colpo e si entra fra gole e strette
di montagne difficilissime. Presto, però, la scena si fa più ridente - si
esce da queste gole per entrare in una valletta da cui le montagne si scostano
di mano in mano che ci si inoltra, e si aprono alla fine per formare una
bellissima conca nella quale si trova la città di Lucca. Questo è il fondo
del vicolo cieco che tuttavia comunica con la Lombardia attraverso numerose
e segrete gole dell'Appennino. Tutta questa terra è ricca in modo inconcepibile
di vino, d'olio e di grano. I campi e le vigne sono tagliati a ogni passo
dalle siepi, coperti e quasi nascosti dal gran numero d'alberi che vi sono
piantati." |
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Lunedi, 24 settembre
1764: Lucca-Pisa - "Usciamo
di nuovo dalla bella conca di Lucca; si vedono sulla sinistra scomparire
le montagne e si entra nel territorio di Pisa che è piatto, paludoso,
malsano . "
Martedi, 25 settembre 1764: Pisa-Livorno
- "Da Pisa a Livorno corrono sedici miglia. Si traversa una foresta molto
ben popolata di selvaggina. Ma tutto il territorio ha un aspetto di palude
e di brughiera. "
Venerdi, 28 settembre 1764: Livorno-Siena
- "Il paese tra Livorno e Siena è in grandissima parte coperto di montagne
e di brughiere. Non è tuttavia male abitato e vi ho scorto parecchie case
di campagna. "
Domenica, 30 settembre 1764: Siena-Radicofani
- "Sono andato sino a Radicofani, piccola città di frontiera
degli Stati di Toscana. E' un paese veramente spaventoso. Non ho mai veduto
montagne più nude e più sterili. "
Lunedì, 1 ottobre 1764: Radicofani-Viterbo - "Da Radicofani
a Viterbo, il paese vale già un po' meglio. Siamo negli Stati del Papa.
Ho veduto in lontananza il lago di Bolsena. Volsinii era veramente situata
in fondo ai boschi che crescono sulle rive del lago."
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Martedì,
2 ottobre 1764: Viterbo-Roma
- "La campagna di Roma! Bella pianura, dopo superata la montagna di Viterbo.
In questo paese più la natura ha fatto per gli uomini, si direbbe, e più
gli uomini trascurano i suoi doni. Siamo arrivati a Roma alle cinque della
sera." |
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D'altra parte, ci sono viaggiatori come Horace Walpole e Thomas Gray, che
oltre a Firenze visitano Siena giusto perché sono costretti a passarvi in
mezzo, essendo diretti a Roma. Dalla mappa degli itinerari, risultano comunque
ricorrenti alcuni spostamenti da una città all'altra (indipendentemente dalla
direzione):
, per la via Pisana,
lungo il corso dell'Arno;
, in genere l'unico del
litorale toscano ad essere attraversato;
, lungo la direttrice
che conduceva a Roma. Meno definiti dalla consuetudine risultano altri spostamenti,
quali:
, attraverso la conca Firenze-Pistoia
e superando la stretta del Monte Albano per arrivare nella piana lucchese;
, con eventuale sosta, dopo gli anni
'40, ai Bagni di Pisa (l'attuale San Giuliano Terme);
, percorrendo un tratto della via
Francigena, che in Toscana collegava Siena a Lucca e deviando a Ponte a Elsa
per la via Livornese.
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Raro era, invece, l'itinerario
che da Firenze, lungo il corso superiore dell'Arno, portava ad Arezzo: il
romanziere Tobias Smollett è l'eccezione che conferma la regola, compiendo
il tragitto nella direzione Arezzo-Firenze, e lasciandoci un racconto esasperato
quanto esilarante della sua esperienza. Riportiamo la versione integrale
del racconto di questo tragitto, che serve a capire le condizioni di disagio
in cui all'epoca venivano effettuati questi spostamenti. Vale la pena di
leggerlo in lingua originale per apprezzare a pieno la maestria letteraria
dello Smollett. |
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"From
Perugia to Florence, the posts are all double, and the road is so bad that
we never could travel above eight and twenty miles a day. We were often
obliged to quit the carriage, and walk up steep mountains; and the way in
general was so unequal and stony, that we were jolted even to the danger
of our lives. I never felt any sort of exercise or fatigue so intolerable;
and I did not fail to bestow an hundred benedictions per diem upon the banker
Barazzi, by whose advice we had taken this road; yet there was no remedy
but patience. …
…The fifth night we passed at a place called Camoccia, a miserable cabaret,
where we were fain to cook our own supper, and lay in a musty chamber, which
had never known a fire, and indeed had no fire-place, and where we ran the risque
of being devoured by rats. Next day one of the irons of the coach gave way at
Arezzo, where we were detained two hours before it could be accommodated. I
might have taken this opportunity to view the remains of the ancient Etruscan
amphitheatre, and the temple of Ercules, described by the cavalier Lorenzo Guazzesi,
as standing in the neighbourhood of this place: but the black-smith assured
me his work world be finished in a few minutes; and as I had nothing so much
at heart as the speedy accomplishment of this disagreeable journey, I chose
to suppress my curiosity, rather than be the occasion of a moment's delay. But
all the nights we had hitherto passed were comfortable in comparison to this,
which we suffered at a small village, the name of which I do not remember. The
house was dismal and dirty beyond all description; the bed-cloths filthy enough
to turn the stomach of a muleteer; and the victuals cooked in such a manner,
that even a Hottentot could not have beheld them without loathing. We had sheets
of our own, which were spread upon a mattress, and here I took my repose wrapped
in a great-coat, if that could be called repose which was interrupted by the
innumerable stings of vermin. In the morning, I was seized with a dangerous
fit of the hopping-cough, which terrified my wife, alarmed my people, and brought
the whole community into the house. I had undergone just such another at Paris,
about a year before.
This forenoon, one of our coach wheels flew off in the neighbourhood of Ancisa,
a small town, where we were detained above two hours by this accident; a delay
which was productive of much disappointment, danger, vexation, and fatigue.
There being no horses at the last post, we were obliged to wait until those
which brought us thither were sufficiently refreshed to proceed. Understanding
that all the gates of Florence are shut at six, except two that are kept open
for the accommodation of travellers; and that to reach the nearest of these
gates, it was necessary to pass the river Arno in a ferry-boat, which could
not transport the carriage; I determined to send my servant before with a light
chaise to enter the nearest gate before it was shut, and provide a coach to
come and take us up at the side of the river, where we should be obliged to
pass in the boat; for I could not bear the thoughts of lying another night in
a common cabaret. Here, however, another difficulty occurred. There was but
one chaise, and a dragoon officer, in the imperial troops, insisted upon his
having bespoke it for himself and his servant. A long dispute ensued, which
had like to have produced a quarrel: but, at length, I accommodated matters,
by telling the officer that he should have a place in it gratis, and his servant
might ride a-horseback. He accepted the offer without hesitation; but, in the
mean time, we set out in the coach before them, and having proceeded about a
couple of miles, the road was so deep from a heavy rain, and the beasts were
so fatigued, that they could not proceed. The postilions scourging the poor
animals with great barbarity, they made an effort, and pulled the coach to the
brink of a precipice, or rather a kind of hollow-way, which might be about seven
or eight feet lower than the road. Here my wife and I leaped out, and stood
under the rain up to the ankles in mud; while the postilions still exercising
their whips, one of the fore-horses fairly tumbled down the descent, and hung
by the neck, so that he was almost strangled before he could be disengaged from
the traces, by the assistance of some foot travellers that happened to pass.
While we remained in this dilemma, the chaise, with the officer and my servant,
coming up, we exchanged places; my wife and I proceeded in the chaise, and left
them with Miss C. and Mr. R., to follow in the coach. The road from hence to
Florence is nothing but a succession of steep mountains, paved and conducted
in such a manner, that one would imagine the design had been to render it impracticable
by any sort of wheel-carriage. Notwithstanding all our endeavours, I found it
would be impossible to enter Florence before the gates were shut. I flattered
and threatened the driver by turns; but the fellow, who had been remarkably
civil at first, grew sullen and impertinent. He told me I must not think of
reaching Florence: that the boat would not take the carriage on board; and that
from the other side, I must walk five miles before I should reach the gate that
was open: but he would carry me to an excellent osteria, where I should be entertained
and lodged like a prince. I was now convinced that he had lingered on purpose
to serve this inn-keeper; and I took it for granted that what he told me of
the distance between the ferry and the gate was a lie. |
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It was eight o'clock when we arrived at his inn. I alighted with my wife
to view the chambers desiring he would not put up his horses. Finding it
was a villainous house, we came forth, and, by this time, the horses were
put up. I asked the fellow how he durst presume to contradict my orders,
and commanded him to put them to the chaise. He asked in his turn if I was
mad? If I thought I and the lady had strength and courage enough to walk
five miles in the dark, through a road which we did not know, and which
was broke up by a continued rain of two days? I told him he was an impertinent
rascal, and as he still hesitated, I collared him with one hand, and shook
my cane over his head with the other. It was the only weapon I had, either
offensive or defensive; for I had left my sword, and musquetoon in the coach.
At length the fellow obeyed, though with great reluctance, cracking many
severe jokes upon us in the mean time, and being joined in his raillery
by the inn-keeper, who had all the external marks of a ruffian. The house
stood in a solitary situation, and not a soul appeared but these two miscreants,so
that they might have murdered us without fear of detection . |
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'You do not like the apartments? (said one) to be sure they were not fitted
up for persons of your rank and quality!' 'You will be glad of a worse chamber,
(continued the other) before you get to bed.' 'If you walk to Fl.orence
to night, you will sleep so sound, that the fleas will not disturb you.'
'Take care you do not take up your night's lodging in the middle of the
road, or in the ditch of the city-wall.' I fired inwardly at these sarcasms,
to which, however, I made no reply; and my wife was almost dead with fear.
In the road from hence to the boat, we met with an ill-looking fellow, who
offered his service to conduct us into the city, and such was our situation,
that I was fain to accept his proposal, especially as we had two small boxes
in the chaise by accident, containing some caps and laces belonging to my
wife. I still hoped the postilion had exaggerated in the distance between
the boat and the city gate, and was confirmed in this opinion by the ferryman,
who said we had not above half a league to walk. Behold us then in this
expedition; myself wrapped up in a very heavy great-coat, and my cane in
my hand. I did not imagine I could have walked a couple of miles in this
equipage, had my life been depending; my wife a delicate creature, who had
scarce ever walked a mile in her life; and the ragamuffin before us with
our boxes under his arm. The night was dark and wet; the road slippery and
dirty; not a soul was seen, nor a sound was heard: all was silent, dreary,
and horrible. I laid my account with a violent fit of illness from the cold
I should infallibly catch, if I escaped assassination, the fears of which
were the more troublesome as I had no weapon to defend our lives. While
I laboured under the weight of my great-coat, which made the streams of
sweat flow down my face and shoulders, I was plunged in the mud, up to the
mid-leg at every step; and at the same time obliged to support my wife,
who wept in silence, half dead with terror and fatigue. To crown our vexation,
our conductor walked so fast, that he was often out of sight, and I imagined
he had run away with the boxes. All I could do, on these occasions, was
to hollow as loud as I could, and swear horribly that I would blow his brains
out. I did not know but these oaths and menaces might keep other rogues
in awe. In this manner did we travel three long miles, making almost an
entire circuit of the city-wall, without seeing the face of a human creature,
and at length reached the gate, where we were examined by the guard, and
allowed to pass, after they had told us it was a long mile from thence to
the house of Vanini, where we proposed to lodge. No matter, being now fairly
within the city, I plucked up my spirits, and performed the rest of the
journey with such ease, that I am persuaded, I could have walked at the
same pace all night long, without being very much fatigued. It was near
ten at night, when we entered the auberge in such a draggled and miserable
condition, that Mr. Vanini almost fainted at sight of us, on the supposition
that we had met with some terrible disaster, and that the rest of the company
were killed. My wife and I were immediately accommodated with dry stocking
and shoes, a warm apartment, and a good supper, which I ate with great satisfaction,
arising not only from our having happily survived the adventure, but also
from a conviction that my strength and constitution were wonderfully repaired:
not but that I still expected a severe cold, attended with a terrible fit
of the asthma: but in this I was luckily disappointed. I now for the first
time drank to the health of my physician Barazzi, fully persuaded that the
hardships and violent exercise I underwent by following his advice, had
greatly contributed to the re-establishment of my health. In this particular,
I imitate the gratitude of Tavernier, who was radically cured of the gout
by a Turkish aga in Aegypt, who gave him the bastinado, because he would
not look at the head of the bashaw of Cairo, which the aga carried in a
bag, to be presented to the grand signior at Constantinople. I did not expect
to see the rest of our company that night, as I never doubted but they would
stay with the coach at the inn on the other side of the Arno: but at mid-night
we were joined by Miss C. and Mr. R.., who had left the carriage at the
inn, under the auspices of the captain and my servant, and followed our
foot-steps by walking from the ferry-boat to Florence, conducted by one
of the boatmen. Mr. R. seemed to be much ruffled and chagrined; but, as
he did not think proper to explain the cause, he had no right to expect
that I should give him satisfaction for some insult he had received from
my servant. They had been exposed to a variety of disagreeable adventures
from the impracticability of the read. The coach had been several times
in the most imminent hazard of being lost with all our baggage; and at one
place, it was necessary to hire a dozen of oxen, and as many men, to disengage
it from the holes into which it had run. It was in the confusion of these
adventures, that the captain and his valet, Mr. R. and my servant, had like
to have gone all by the ears together. The peace was with difficulty preserved
by the interposition of Miss C., who suffered incredibly from cold and wet,
terror, vexation, and fatigue: yet happily no bad consequence ensued. The
coach and baggage were brought safely into Florence next morning, when all
of us found our-selves well refreshed, and in good spirits." |
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La caratterizzazione regionale della Toscana del Settecento
Lo studio dei resoconti di viaggio esaminati ha permesso di riconoscere l'esistenza
di un'idea regionale nelle cognizioni geografiche dei viaggiatori inglesi
dell'epoca. Vero è che raramente essi riescono a fornire un quadro generale
approfondito della situazione storica toscana, in un periodo di per sé complesso
come quello del passaggio dai Medici ai Lorena; spesso, inoltre, le osservazioni
sui vari aspetti dell'ambiente regionale rimangono tasselli di un mosaico
che non si riesce a completare, o semplicemente non ci si preoccupa di farlo.
Ma è pur vero che emergono dei rimandi e contrappunti interni nella lettura
dei diversi territori toscani i quali, evidenziando legami e differenze, rivelano
appunto l'esistenza di una 'idea regionale': l'unità interna si rivela proprio
attraverso l'analisi e il confronto di realtà contrastanti all'interno della
regione (la prepotente Firenze contro la soggiogata Siena; la moderna Livorno
contro la decaduta Pisa; la Repubblica di Lucca come modello politico da contrapporre
al Granducato di Toscana). In questo i viaggiatori esaminati sembrano in effetti
avere colto le molteplici individualità dello spazio regionale, una Toscana
dai tanti campanili le cui eredità culturali sono giunte fino ai nostri tempi.
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Allo
stesso modo, nel contesto italiano, la realtà toscana emerge allorché viene
posta in contrasto con realtà esterne, in particolare nel confronto con i territori
laziali. Questi viaggiatori rimangono infatti estremamente colpiti dal cambiamento
del paesaggio passando dallo Stato della Chiesa al Granducato di Toscana. Provenendo
da sud, in effetti, la prima immagine che si aveva del Granducato era il paesaggio
"brullo e desolato" intorno a Radicofani, una visione che diventa stereotipo
nell'espressione usata per la prima volta da Joseph Addison all'inizio del secolo
(lui la attribuisce ad un proverbio italiano) e ripetuta da tutti i viaggiatori
seguenti: "il Papa ha la carne e il Granduca gli ossi d'Italia". |
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Tale visione serviva
in realtà a convalidare una particolare convinzione ideologica: la Toscana
appariva tanto più industriosa quanto più se ne metteva in risalto l'asperità
dell'ambiente naturale; al contrario, lo Stato della Chiesa, favorito da
una felice morfologia, giaceva di fatto in condizioni miserevoli. La percezione
dell'ambiente toscano è infatti quella di "mountainous country"; viene così
riconosciuta all'uomo una portentosa opera di modellamento e miglioramento
delle condizioni naturali.
Non bisogna, comunque, sottovalutare il fatto che alla percezione della Toscana
come "regione montuosa" - quando in realtà si tratta per lo più di rilievi collinari
- contribuiva l'andamento delle strade. Questi viaggiatori erano infatti costretti
a superare tutta una serie di colline attraverso arterie che continuamente si
inerpicavano e ridiscendevano tortuosamente sui loro fianchi. |
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Come
rileva Leonardo Rombai, infatti, intorno alla metà del Settecento la maglia
viaria della Toscana presentava in apparenza "un notevole grado di maturità,
essendo il prodotto di una storia plurisecolare", tuttavia "questa fitta rete
appariva generalmente arcaica e trascurata, sia per la struttura 'genetica'
che per le sue condizioni d'uso. Nelle aree collinari e montane, le vie - indipendentemente
dalla loro denominazione e classificazione gerarchica - si caratterizzavano
infatti, invariabilmente, per la tortuosità e per la angustia del fondo stradale
(quasi sempre sterrato, raramente sistemato con massicciata e inghiaiato o con
lastricato)". Frutto, questo, di una politica territoriale tipica degli stati
di antico regime, che consideravano la strada principalmente nella sua valenza
strategico-militare. Così, "i Medici avevano tenuto sempre presente il rapporto
esistente tra impraticabilità delle vie di confine (particolarmente di quelle
appenniniche) e sicurezza dello stato toscano. Del resto, ancora intorno alla
metà del Settecento" - quindi sotto la Reggenza lorenese - "(sia pure in una
fase di emergenza come quella della guerra di successione austriaca), questa
concezione era ben radicata; il fatto ci aiuta a comprendere le ragioni per
cui la viabilità che risaliva i versanti dell'Appennino verso la frontiera fosse
volutamente mantenuta nelle sue caratteristiche di estrema precarietà: in quelle
condizioni, essa si prestava singolarmente, all'occorrenza, alla difesa". |
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Si
possono, infatti, distinguere tre fasi. Nella prima, ossia fino alla metà del
secolo, tutti i viaggiatori lamentano la difficoltà del passaggio (attraverso
il Monte Giogo): |
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"La via da Firenze a Bologna passa sopra una serie
di catene montuose ed è, credo, la peggiore strada di tutte le appenniniche"
(Joseph Addison)
"Il passaggio delle montagne tra Bologna e questo luogo [Firenze] è certamente
il passo più difficile di tutti gli Appennini" (Joseph
Spence)
"Tra Bologna e Firenzuola, strade deplorevoli, fra monti e rocce" (Lady
Mary Wortley Montagu)
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Nella
seconda fase, ossia negli anni immediatamente successivi alla realizzazione
della carrozzabile, si prende atto della nuova strada (attraverso la Futa).
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Così
scrive infatti John Boyle, nel 1754:
"Il nostro viaggio da Bologna a qui [Firenze] è stato realizzato
in un giorno e mezzo. Il passaggio degli Appennini non è stato né
pericoloso né faticoso. Non appena lasciammo il territorio bolognese
ed entrammo in quello toscano, la strada fu buona e il nostro salire e scendere
sorprendentemente facile. Difficilmente un'altra opera pubblica può giovare
di più all'onore dell'attuale imperatore, quale duca di Toscana, di questa
nuova strada. Essa viene condotta in una tale maniera tra gli Appennini che
il Monte Giovo (questo monte è chiamato Giovo da Monsieur Misson e da
alcuni geografi. Il Sig. Wright, un viaggiatore più moderno, lo chiama
Giogo e così lo chiamano pure i fiorentini), una specie di fratello gemello
del Moncenisio, viene completamente evitato." |
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La strada cui Spence fa riferimento non può che essere
un tratto della Francigena, da Siena a Ponte a Elsa; da qui deve poi essersi
immesso sulla strada proveniente da Firenze per Livorno. Ma, in generale,
le arterie di pianura erano spesso soggette alle frane, all'azione erosiva
delle acquepiovane e alle esondazioni di fiumi e torrenti. Il cattivo stato
caratterizzava comunque sia le vie di piano e che quelle collinari, per la
trascuratezza e l'abbandono in cui venivano lasciate. Le vie erano, infatti,
generalmente solo sterrate e prive di opere murarie, quindi facilmente deteriorabili.
Il selciato si trovava quasi esclusivamente nei pressi dei centri abitati
e dei passi più difficili, e comunque, questi viaggiatori non lo trovavano
un buon rimedio perché, come afferma Smollett a proposito della Cassia, rendeva
la strada scivolosa.
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L'organizzazione del territorio
La Toscana si caratterizzava dunque come una regione collinare-montuosa,
all'interno della quale l'unica realtà economicamente viva e interessante
era costituita dall'asse del fiume principale: l'Arno. Esso si configurava
come una vera e propria spina dorsale per la regione, non solo perché la sua
fertile valle costituiva una delle zone agricole a maggiore intensività colturale,
ma anche perché collegava, con l'aiuto, nel tratto finale, del Canale dei
Navicelli, le sole due città economicamente importanti del Granducato: Firenze
e Livorno. Ossia, la capitale accentratrice di ricchezze e il porto commerciale.
Come non sfugge agli inglesi l'importante funzione di via commerciale dell'Arno,
così non sfugge loro quanto dannoso sia, in effetti, a quella stessa funzione,
il regime poco regolare del fiume.
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"E' navigabile per piccole navi da Firenze
al mare. in piena estate rimane spesso all'asciutto. Nella stagione invernale,
esonda spesso. Si puo giudicare che tali estremi non siano affatto vantaggiosi
al commercio." (John Boyle)
"Questo fiume, che è piuttosto insignificante
rispetto alla portata, sarebbe incantevole e poetico, se l'acqua fosse trasparente;
invece è sempre fangosa e torbida. A dieci o dodici miglia da Firenze,
lungo il fiume, ci sono delle cave di marmo [in realtà cave di arenaria,
della Gonfolina, nei pressi di Signa]; da lì i blocchi vengono trasportati
in barche, quando nell'Arno c'è acqua sufficiente per la navigazione,
cioè dopo forti piogge o dopo il fondersi delle nevi sui monti dell'Umbria,
che fanno parte degli Appennini da cui nasce l'Arno." (Tobias
Smollett)
"E' torbido, come la maggior parte degli altri
fiumi in Italia; ha trovato, tuttavia, molti scrittori che l'hanno celebrato,nonostante
abbia due pessime caratteristiche per un fiume, cioè una tendenza all'alluvionamento
dopo forti temporali e ad essere quasi asciutto in altri momenti. Ho visto
un'iscrizione sui muri di una casa, all'altezza di circa dieci piedi da terra,
nella quale si diceva che nell'anno 1557 il fiume alluvionò la città
fino all'altezza di quella iscrizione; ce n'è stata un'altra simile
nel 1761, che raggiunse i due piedi di altezza nelle strade. Queste inondazioni
avvengono molto spesso." (Samuel Sharp)
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In
realtà, l'Arno - nelle parole del contemporaneo Ferdinando Morozzi, autore
di importanti carte del Granducato - era per i toscani anche un "possente
nemico" che passava "nel mezzo della bella capitale di Toscana, alla
quale oltre all'ornamento esser dovrebbe di diletto, e non di terrore, come
purtroppo per nostra fatal disgrazia egli è." E terrore si riscontra
anche fra quegli inglesi che si trovavano ad assistere direttamente a simili
spettacoli. L'alluvione del 1740, che a Firenze e dintorni fece danni per "due
milioni di corone romane", secondo quanto riportato da Joseph Spence, è
descritta con toni drammatici nei resoconti di viaggio. Eccone la descrizione
di Horace Walpole: |
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"Ieri,
assieme alle violente piogge, si riversò giù dai monti una
tale piena che allagò l'intera città. I gioiellieri di Ponte
Vecchio portaron via la loro merce, e due ore dopo il ponte cedette. Il
torrente straripò e fece annegare diversi cavalli, che vengono tenuti
qui in scuderie sotterranee. Siamo rimasti imprigionati tutto il giorno
in casa, che è vicina all'Arno, e abbiamo avuto il miserabile spettacolo
delle rovine che venivano trasportate via con il ciclone. ... Il torrente
si è considerevolmente calmato; ma aspettiamo terribili notizie dal
resto del paese, specialmente da Pisa, che si trova molto vicino al mare
e al di sotto del suo livello. C'è una pietra qui, che quando viene
superata dalle acque, Pisa è completamente allagata. L'acqua superò
di due braccia, ieri, quella pietra. Giudica tu!" |
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L'Arno,
di cui giustamente si comprende il regime torrentizio, non poteva essere quindi
di grande utilità ai toscani, come via commerciale. Certo, ponendo come
pietra di paragone il Tamigi, l'importanza del fiume toscano doveva apparire
davvero irrilevante. Ma, poi, a quale commercio avrebbe dovuto essere utile?
Era proprio il commercio in sé che - commentano i nostri viaggiatori
- avrebbe dovuto essere potenziato, e che invece era continuamente oppresso
in una fitta rete di vincoli che immobilizzavano le ricchezze del paese nelle
mani di pochi. Stava qui, agli occhi degli inglesi, nell'immobilizzazione delle
ricchezze, la ragione prima della decadenza della Toscana granducale, come della
maggior parte degli Stati italiani. Ed è qui che si appuntano le loro
maggiori critiche e riserve.
E' naturale che questi viaggiatori, provenienti da una nazione che si avviava
a grandi passi verso la rivoluzione industriale, considerassero inconcepibile
che la maggior parte dei capitali non venissero impiegati in un ciclo produttivo
e che specialmente nelle parti marginali della regione le ricchezze restassero
rigidamente immobilizzate nelle sole mani di ordini privilegiati ad esclusione
della quasi totalità della popolazione. E quegli ordini non si rivelavano
affatto capaci di saper utilizzare al meglio le risorse che avevano il potere
di gestire.
Lo dimostravano le stesse condizioni di "imbarbarimento"
della nobiltà e del clero. Lo Stato andava impoverendosi sempre più perché andava
sempre più aumentando il divario che lo separava dalle nazioni economicamente
avanzate. Ma dove stava la colpa di una simile corsa, come la giudicavano questi
inglesi, all'annientamento? La colpa era dei governanti che non sapevano affrontare
una riforma economica seria; e fors'anche dello stesso popolo toscano, che si
era ormai troppo rassegnato a subire una sorte infausta. Le accuse si rivolgevano,
in primo luogo, alla classe politica granducale. Ecco come, a metà Settecento,
veniva giudicata la situazione politica della Toscana appena passata nelle mani
dei Lorena, nelle parole distaccate e lucidamente spietate di uno di questi
viaggiatori inglesi, John Boyle: |
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"La sorte della Toscana è stata un cambiamento radicale
come pochi ce ne sono stati negli ultimi anni. Fu assegnata all'attuale imperatore
come duca di Lorena con il trattato di Vienna del 1736 in cambio della Lorena,
consegnata alla Francia. Al momento non sembra proprio che cambierà nuovamente
padrone. Se le rivoluzioni europee d'ora in poi richiedessero una nuova disposizione
per la Toscana, e questa dovesse avvenire con la forza, non occorrerebbe probabilmente
molto tempo per effettuarla. Le truppe del granduca ammontano a meno di tremila
uomini. Livorno appare in effetti ben fortificata secondo il sistema moderno,
ma le altre città hanno poche difese contro un nemico. Firenze ha tre fortezze,
mal fornite di cannoni e piuttosto adatte a tenere in soggezione la città
che a resistere ad una forza esterna. La città è attorniata su tre lati da
alte colline, dalle qua li, con gli attuali mezzi bellici, Firenze potrebbe
essere ridotta in poco tempo ad un mucchio di macerie.
I cuori dei toscani desiderano ardentemente un granduca
che risieda nella città. Hanno una gran ragione, perché il loro stato si è
molto impoverito dalla morte di Gian Gastone, l'ultimo di Casa Medici. Durante
il suo regno gli abitanti di Firenze erano un centinaio di migliaia di anime;
adesso sono ridotti a meno di ottantamila. Può esservi un esempio più valido
dell'atrofia di uno stato? La conquista della Toscana sarebbe resa ancora
più facile dalle tacite inclinazioni degli abitanti a cambiare il loro padrone.
... Niente dà più fastidio ai fiorentini di vedere ogni posto di impiego vacante
ricoperto da un lorenese. Nemmeno uno dei governanti appartenenti ai palazzi
è italiano. Vengono tutti dalla Lorena, richiamati a questo alveare dal tintinnio
del campanello del conte Richecourt. La maggior parte di loro sono suoi parenti;
tutti suoi dipendenti. Di qui nascono l'odio, l'avversione e le dicerie contro
di lui e il suo capo; ma poiché questa gente infelice é sottomessa, soggiogata
ed esaurita, possono appendere le loro arpe, sedersi e piangere sulle rive
dell'Arno. L'entrata annuale della Stato si dice che sia di circa 500.000
sterline; le spese annuali del governo sono circa la metà di quella somma.
Il resto se ne va dal ducato e raggiunge Vienna."
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Dal
punto di vista sociale e della libertà di espressione, il peso dell'inquisizione
era ciò che colpiva maggiormente i nostri viaggiatori. E in effetti l'inquisizione
svolgeva ancora un ruolo importante. Lo stesso esempio di interferenza della
Chiesa nella cultura del popolo toscano è presente sia in Addison, che apre
la serie dei nostri viaggiatori, sia in Sharp, che la chiude: entrambi restano
colpiti dalla 'Protesta'che, a teatro, veniva letta all'inizio dello spettacolo.
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"Non potei trattenermi dal ridere
nel vedere la Solenne Protesta del poeta, nella prima pagina, dove egli dichiara
che 'Le voci Fato, Deità, Delfino, e simili, che per entro questo dramma trovarai,
son messe per ischerzo poetico, e non per sentimento vero, credendo sempre
in tutto quello che crede e comanda Santa Madre Chiesa'." (Joseph Addison)
"La Chiesa mantiene uno stretto controllo sopra i sudditi di Toscana, cosi
come in altri Stati italiani. Sulla stessa pagina del libretto d'opera dove,
in Inghilterra, viene di solito scritto l'argomento, qui si trova, in lettere
maiuscole, una 'Protesta''.
Questa protesta è una dichiarazione per cui, sebbene lo scrittore dell'opera
abbia fatto uso delle parole Dio, Dei, Deità ecc., egli non vuole recare offesa
alla Chiesa: ma, secondo la mitologia degli antichi, è stato obbligato a introdurre
tali leggende e tali frasi." (Samuel Sharp)
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Gibbon, in visita alla biblioteca del Convento domenicano di San Marco, afferma:
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"Mi
sono divertito a guardare i libri proibiti che sono chiusi in un armadio
a parte come autentici appestati. Sono così severi (gli espurgatori) che
qualche volta condannano un lavoro per una parola sfuggita nella prefazione."
E Smollett ci parla di quanto profondamente radicate
fossero le confraternite religiose nel tessuto sociale:
"Le confraternite sono congregazioni di devoti che si arruolano sotto i vessilli
di santi particolari. Nei giorni di processione appaiono vestiti da penitenti
e mascherati, distinti da delle croci sulle loro tonache. Non c'è individuo,
nobile o plebeo, che non appartenga ad una di queste associazioni, che possono
essere assimilate ai Frammassoni, ai Gregoriani e agli Anti-Gallicani in Inghilterra."
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Un
altro aspetto della vita sociale del popolo toscano colpiva particolarmente
questi viaggiatori: l'usanza del gioco del lotto, considerato un esempio emblematico
di come il governo usasse il proprio potere per l'arricchimento del Granduca
e l'immiserimento della gente comune. |
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"Ma
niente, a Firenze, nemmeno il clericalismo, tiene viva con tanta efficacia la
vena della superstizione come una certa lotteria, istituita dal governo per
il guadagno del principe e la rovina del popolo. ... Queste lotterie (ce ne
sono due, una a Livorno, l'altra a Firenze), sono esempi evidenti del metodo
usato per portare avanti e sostenere l'attuale governo di Firenze. ... Un governo
che si mantiene con espedienti e con ingiuste macchinazioni è una tirannia della
peggior specie. Tuttavia, cattiva com'è, i fiorentini non osano lamentarsi.
Dove la volontà del principe è assoluta, le lamentele della gente non valgono
a niente. … Firenze è governata in modo assoluto da un singolo viceré, un lorenese
[Richecourt]." (John Boyle) |
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Nel 1739, infatti, il gioco del lotto era stato riammesso
e subito appaltato al napoletano Ottavio Castaldi. Questo gioco era stato
precedentemente condannato, perché giudicato stimolo all'ozio e ai delitti,
da Gian Gastone e dal Principe di Craon, reggente per i Lorena. Ricorrendo
in genere al sistema dell'appalto, rimedio tipico degli Stati dell'Ancien
Régime, la Reggenza lorenese si dimostrò incapace di risolvere seriamente
il problema finanziario e di svolgere, quindi, una vera e propria politica
di riforma fiscale. Durante tutto il periodo della Reggenza si registrano
commenti molto negativi sulle condizioni economiche e di organizzazione territoriale
della Toscana.
Le speranze di una qualche ripresa per
il popolo toscano si fanno nuovamente presenti, secondo quanto riportato nei
resoconti di viaggio, solo quando finalmente ci si prepara ad accogliere un
nuovo Granduca che risiederà stabilmente in Toscana. Smollett, che passa da
Firenze poco prima dell'arrivo di Pietro Leopoldo, ci offre questo quadro
della situazione: "A Firenze, sebbene sia
piuttosto densamente popolata, sembra esservi pochissimo commercio di qualsiasi
tipo: ma gli abitanti si illudono di raccogliere grandi vantaggi dalla residenza
di uno degli arciduchi, per l'accoglienza del quale stanno ora restaurando
Palazzo Pitti." Del resto, il giudizio sui Medici, a quanto riportano
i viaggiatori inglesi, non era migliore. Gibbon si esprime nel modo seguente:
"Rappresentavano una parte molto più bella nei loro
banchi di commercianti, come protettori delle arti e arbitri d'Italia, di
quando più tardi si innalzarono al grado di oscuri sovrani di un piccolo Stato."
E George Berkeley, nel 1714 da Livorno, scrive: "La
gente qui è molto scontenta del governo del Granduca. La famiglia Medici sta
per estinguersi e la gente non sa a chi si affiderà; eppure è tranquilla,
perché è sicura di non poter subire sorte peggiore." Quella della Toscana
granducale degli ultimi Medici e della Reggenza lorenese appare quindi, ai
viaggiatori inglesi, come una fase storica di assoluta inerzia.
In questa ottica, anche le cosiddette "leggi
di rottura" della Reggenza - sulla stampa, sui fedecommessi, sui feudi,
sulla nobiltà, sulle manomorte - vengono considerate assolutamente irrilevanti.
Emblematico è, a questo proposito, l'atteggiamento di Gibbon, il quale accenna
appena a quelle leggi, all'interno di un discorso su Botta e Richecourt, addirittura
concludendone la serie con un significativo "eccetera": "La
sua condotta [di Botta] viene paragonata a quella del suo predecessore, il
conte di Richecourt, che ha degnamente rappresentato il suo principe, ha concluso
un concordato molto vantaggioso con la Corte di Roma, soppressa l'Inquisizione,
limitato il numero e la ricchezza dei conventi con una legge di Manomorta,
e fatta la grande strada per Bologna eccetera." Il
fatto è che, nonostante ciò, i viaggiatori continuavano a trovare la stessa
abbondanza di nobili, la stessa ingerenza della Chiesa nella vita dei cittadini
e, soprattutto, la stessa critica situazione economica. L'industria, o più
propriamente la manifattura, toscana attraversava ormai da tempo un periodo
di crisi, non potendo competere con quella delle grandi monarchie europee;
ed infatti gli inglesi non la prendono quasi nemmeno in considerazione. Altrettanto
statica appariva la situazione delle campagne toscane. Il settore agricolo
era nelle mani della nobiltà e del clero, che vivevano nelle città e si tenevano
lontani dai problemi della campagna. Le tasse gravavano poco su di loro e
molto sulla gente comune:
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"La
rendita familiare del Granduca è di circa 150.000 corone all'anno. Il resto
viene da tasse e imposte ed ammonta a meno di due milioni di corone in tutto.
C'è una leggera tassa sulla terra ... La cosa più pesante sono le imposte.
La Toscana è stranamente invasa dal clero, le cui terre non devono essere
tassate; così i Granduchi hanno posto il peso sui prodotti della terra più
che sulle terre stesse." (Joseph Spence) |
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La
percezione dello spazio rurale
La percezione dello spazio rurale, da parte dei viaggiatori
esaminati, risulta in genere piuttosto superficiale. E' indubbiamente la Toscana
delle città che ha un ruolo preminente nei loro resoconti; tanto che,
nella narrazione, non si ritiene sempre necessario descrivere al lettore gli
spazi intercorrenti fra una città e l'altra, ricorrendo talvolta ad una
drastica interruzione della continuità descrittiva.
Anche se in alcuni resoconti il discorso sul paesaggio nel quale queste città
sono inserite viene esplicitato, ne deriva un'immagine di maniera, non caratterizzata.
Piuttosto rare sono le osservazioni originali e difficilmente vengono colte
la varietà e le peculiarità dei paesaggi toscani: il "Tuscan
landscape" viene così inevitabilmente a identificarsi con il paesaggio
fiorentino dalla campagna ridente e popolata, con la sua geometria particolare,
quasi una compiuta opera d'arte, secondo una lettura che privilegia nettamente
i canoni estetici.
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"I
dintorni di Firenze sono deliziosi; le colline, per due o tre miglia intorno
alla città, formano un anfiteatro, dove un migliaio di ville, costruite
in pietra bianca, adornano il panorama. I campi, come del resto l'intera
faccia della Toscana, sono, si può dire, coperti di olivi."
(Samuel Sharp)
Boyle descrive pressappoco lo stesso paesaggio nell'avvicinarsi a Firenze,
da Bologna:
"Avvicinandosi alla città di Firenze, le piccole ville, che sono
davvero numerose, bianchissime, e disperse qua e là tra le colline
e i sempreverdi [gli olivi?], producono all'occhio un effetto molto piacevole."
E Walpole, da Siena:
"Non puoi immaginare quanto sia piacevole la campagna tra questa città
[Siena] e Firenze; milioni di collinette piantate di alberi e in cima ville
o conventi"
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E'
in particolare il paesaggio dei campi a pigola, in collina, e dell'alberata,
in pianura, che colpisce i viaggiatori. Questi paesaggi erano l'espressione
delle sistemazioni agrarie tipiche della cosiddetta "Toscana di mezzo",
coincidente con gran parte del bacino dell'Arno ed essenzialmente con le aree
collinari e di fondovalle, dove si sviluppò a pieno il sistema della
mezzadria. In Toscana, le vecchie famiglie patrizie, arricchitesi in età
comunale con le attività manifatturiere, commerciali e bancarie, avevano
sempre più investito i capitali urbani nelle aziende mezzadrili, che
permettevano di trarre dalla terra una sicura rendita senza dover ricorrere
a grossi investimenti produttivi. |
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Sebbene i nostri viaggiatori
non facciano alcun riferimento esplicito a questa particolare struttura
economico-sociale, tipica delle campagne toscane e non solo, le descrizioni
che seguono mettono bene in evidenza la promiscuità delle colture,
principale caratteristica della sistemazione agraria tipicamente mezzadrile. |
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"La valle dell'Arno, una delle più belle
valli del mondo ... verso l'esterno è delimitata da terreno che prende
forma di colline più o meno elevate, le quali sono coltivate su tutti
i lati salendo più in alto possibile. In mezzo alla valle scorre l'Arno,
che va verso Livorno e offre un facile trasporto di merci da e verso il mare.
Il margine della strada è pieno di viti, e i grappoli pendono da gelsi
e olmi e, a volte, si vedono un albero di uva rossa e uno di uva bianca insieme
per un lungo tratto." (Joseph Spence)
"Da Pisa a Firenze... la campagna è
deliziosa. Si scorgono incantevoli colline, valli, boschi, acque, prati, campi
di grano, recinti da siepi verdi come nel Middlesex e nello Hampshire; con
questa differenza però, che in questa zona tutti gli alberi sono coperti
di viti e i grappoli maturi, bianchi o rossi, pendono da ogni ramo in un'abbondanza
esuberante e romantica. Le viti, in questo paese, non sono piantate in filari
e sorrette da pali, come in Francia e nella contea di Nizza, ma si avvolgono
agli alberi che fanno da siepe, e che rimangono quasi coperti dalle foglie
e dai frutti. I tralci si stendono da un albero all'altro, in bei festoni
di verdi foglie, viticci e grappoli turgidi lunghi un piede. Con questa economia
si risparmia il terreno del campo per il grano, erba o qualsiasi altro prodotto.
Gli alberi comunemente piantati per sostenere le viti sono aceri, olmi e ontani;
questi ultimi abbondano sulle rive dell'Arno."
(Tobias Smollett)
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E' interessante come,
in quest'ultimo brano, Smollett riesca ad unire in maniera naturale alla
descrizione quasi lirica della scena campestre la riflessione economica
sulla possibilità di avere, in ogni piccolo appezzamento, un'importante
varietà di prodotti.
Riferimenti indiretti al sistema mezzadrile si trovano, in realtà, anche
quando si descrive il modo di vivere della nobiltà fiorentina, che nei
suoi palazzi cittadini era solita vendere direttamente il frutto dei propri
possedimenti, a sua volta ricevuti in natura:
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"Con tutto il loro orgoglio, però, i
nobili fiorentini sono umili abbastanza da entrare in società coi bottegai
e perfino di vendere il vino al minuto. E' un fatto evidente che nella facciata
di ogni palazzo o grande casa, in questa città, c'è una finestrella
fornita di un battente di ferro, e sopra a questa sta appeso un fiasco vuoto,
come insegna. Lì si manda il servo, se si vuol comprare una bottiglia
di vino. Egli batte allo sportello, che viene subito aperto da un domestico,
il quale fornisce quanto richiesto e riceve il denaro come il cameriere di
una qualunque osteria." (Tobias Smollett)
"Ad una finestra di ogni grande palazzo è
costantemente appeso un fiasco vuoto, per far vedere che il padrone vende
il vino. La nobiltà fiorentina riceve il prodotto della propria terra
in natura." (John Boyle)
Quest'ultimo motivo, appena accennato da Boyle, viene così spiegato
da Sharp:
"La verità è che in tutta Italia
gran parte della rendita della proprietà terriera è pagata in
natura, il che, assieme ad un certo sgravio sul vino importato, garantito
ai nobili di Firenze, li ha portati, credo, a questa apparente meschinità."
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Tali
riferimenti alla parziale rendita in natura della proprietà terriera
non sono che vaghi accenni alla particolarità del sistema mezzadrile,
su cui tuttavia non viene mai fatta una riflessione approfondita.
Al contrario della Toscana di mezzo, Toscana appenninica e Toscana marittima
restano indubbiamente in secondo piano. La montagna appenninica viene comunemente
percepita solo come ostacolo da superare e le uniche note che se ne danno sono
quelle riguardanti la difficoltà o meno dell'attraversamento, assieme
a qualche lamentela sulla noia del viaggio o sul fastidio procurato da qualche
locandiere. |
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La
maggior parte di questi viaggiatori la pensava sicuramente come Walpole, al
riguardo, il quale non si decideva a tornare in patria, una volta stabilitosi
a Firenze, perché, come scriveva all'amico West,
"non puoi immaginare Alpi, Appennini, locande italiane e diligenze postali.
Tremo al pensiero". Per quanto riguarda la vegetazione o il tipo
di economia di queste zone, silenzio assoluto, come se non ricoprissero alcun
ruolo preciso nel complesso dello spazio regionale. L'unico ad attribuir loro
una qualche utilità, anche se vi dedica solo poche parole non strettamente
riguardanti la Toscana, è Addison:
"gli Appennini ... questa prodigiosa catena montuosa che scorre da un'estremità
all'altra d'Italia e dà origine a un'incredibile varietà di fiumi
che bagnano questo delizioso paese". |
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Un'attrazione
tutta particolare, però, queste montagne la rivestono: è quella
per i "fuochi" di Pietramala, che suscita la curiosità di molti
viaggiatori. Due di loro si soffermano in particolar modo su questo fenomeno,
lasciandoci interessanti descrizioni: |
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"mi
recai a vedere le montagne ardenti presso Firenzuola e di cui tutti i naturalisti
parlano come di cosa molto rara. La fiamma che se ne sprigiona è
senza fumo e sembra acquavite accesa. Il terreno intorno è ben coltivato
e il fuoco appare solo in un punto dove vi è una cavità, dalla
bocca assai stretta; dentro si vedono dei crepacci la cui profondità
è ignota. E' degno di osservazione il fatto che quando si getta un
pezzo di legno in quella cavità, rimane consumato in un attimo, benché
non passi attraverso i crepacci. Un'altra curiosità
è questa: |
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il terreno intorno alla cavità è perfettamente freddo, ma
se vi si sfrega, con una certa forza, una bacchettina, ne esce una fiamma
che non scotta e non dura a lungo come quelle dei vulcani. Se desiderate
un racconto più particolareggiato di questo fenomeno e avete fatto
considerevoli progressi nello studio dell'italiano, leggete la descrizione
di Padre Carazzi; non vi sarà difficile procurarvela, perché
l'ho mandata al Sig. F. e non dovete far altro che chiedergliela. Mi arrampicai,
un po' a piedi e un po' a cavallo, sulle colline vicine, ma non riuscii
a scorgere, in nessuna, traccia di fuoco, benché si dica che tutte
contenevano dei vulcani." (Lady Mary Wortley
Montagu)
"Ne avevo, veramente, sentito spesso parlare,
ma sebbene fossi già passato da questa strada [questo era
il suo secondo viaggio in Italia], non l'avevo
mai visto prima. Quello che si diceva (e che io avevo sempre considerato
come una mezza bugia) era che c'era un fuoco che appariva sempre di notte,
poco distante da un posto chiamato Pietra Mala. Che c'era un fuoco nell'aria,
ma di poco sopra il terreno, e che esisteva, senza aver recato alcun danno,
da tempo immemorabile.
...Era una placida fiamma gialla, come il corpo del sole, e sembrava, da
quella distanza, alta circa tre piedi e larga uno; il postiglione ci disse
che in realtà era alta circa dieci piedi e, in proporzione, più
larga. Ci disse che era stato spesso sul posto e ultimamente con certi gentiluomini
inglesi, di cui non conosceva il nome. Che il terreno dove appare la fiamma
e da cui fuoriesce è di un colore rossastro e che quello è
il colore del suolo in genere lì intorno. Che nel terreno non c'è
alcuna cavità e che niente è andato bruciato, benché
il più anziano della parrocchia si ricordi di quel fuoco da sempre
e lo stesso ricordavano i suoi antenati. Che c'era zolfo nel terreno, e
'oleo de' sassi'. ...L'uomo più colto e grande medico del posto
[il fiorentino Antonio Cocchi] mi ha riferito che
i curiosi hanno cercato e trovato una gran quantità di petrolio nel
suolo, che è poi la stessa cosa dell'altro oleo de' sassi. Il mio
caro amico Holdsworth ... mi informa che non sempre brucia, sebbene generalmente
lo faccia, e che alcuni suoi amici sono andati una volta a vederlo, e la
gente del posto diceva che non era acceso, ed essendo i visitatori molto
dispiaciuti, dissero quelli: -'oh, possiamo accendervelo!'. Dopodiché
una persona andò subito a prendere una candela e passandovela sopra,
accesa, attraverso l'aria, questa si infiammò bruciando più
che poteva. Ci sono tante cose, in tutto questo, che sono ancora inconcepibili
per me: spero che potrò darti una migliore spiegazione della cosa
quando tornerò a casa." (Joseph
Spence)
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Lady Montagu e Joseph Spence registravano queste impressioni
entrambi nel 1740, nell'agosto la prima e nell'ottobre il secondo. Anche il
celebre naturalista toscano Giovanni Targioni Tozzetti, esaminando un campione
di terra di Pietramala nel corso di una delle escursioni scientifiche compiute
fra il 1742 e il 1745, notava come questo emanasse "un copioso ma grato
odor di petroleo, o sia olio di sasso", secondo quanto riportato nelle
sue Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. Ma è
solo nel 1780 che viene scoperta la vera origine di questi "terreni ardenti":
in quell'anno, infatti, Alessandro Volta visita la regione di Pietramala e
riconduce il fenomeno alla cosiddetta "aria infiammabile nativa delle
paludi", ossia al gas metano.
Se gli Appennini rappresentavano una realtà con cui si doveva per forza
venire a contatto, la Toscana marittima poteva essere del tutto evitata, visto
che le maggiori direttrici nord-sud passavano all'interno della regione. Ed
infatti, a parte il tratto Pisa-Livorno, e solo in rari casi (Smollett) la
fascia costiera che da Sarzana portava a Livorno, le pianure e colline litoranee
venivano oculatamente trascurate, ben consapevoli i nostri viaggiatori del
susseguirsi pressoché ininterrotto, in questi luoghi, di paludi, acquitrini,
stagni costieri e della presenza di innumerevoli focolai di malaria.
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Cosi,
le due periferie della regione, il quadrante appenninico e la fronte marittima,
venivano a delinearsi, nella percezione dei viaggiatori inglesi, come aree cuscinetto
tra quella che si costituiva come Toscana vera e propria (la Toscana di mezzo)
e altre realtà geografiche. Servivano, comunque, a svolgere almeno un'importante
funzione di confine (con il mare, ad ovest, la fascia costiera; con la regione
padana, a nord, l'Appennino tosco-emiliano), assieme ad un'altra zona che assolveva
a questo compito (di confine, a sud, con lo Stato della Chiesa): quella della
maremma senese e, soprattutto, la zona attorno a Radicofani, che - come abbiamo
visto - con il suo paesaggio "brullo e desolato" colpiva in particolar
modo questi viaggiatori.
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La rappresentazione dello spazio urbano
Abbiamo già avuto modo di osservare che le spazio urbano riveste un
ruolo di primo piano nei resoconti di viaggio dell'epoca.
Firenze, Siena, Pisa, Livorno, Lucca sono le tappe principali dei vari e personalizzati
itinerari toscani. Per ogni città, viene elaborato un discorso a parte.
Non c'è, insomma, nei nostri viaggiatori, un unico modello di analisi
da applicare a qualsiasi realtà urbana; una griglia di partenza comune
per tutte, che deve essere sempre riempita in tutte le sue caselle. Per ogni
città, invece, si riempie una casella particolare; una sola, quella
che più la caratterizza. Nella globalità del mito italiano,
nel Paese delle cento città, viene così a prender corpo, una
volta portata la lente d'ingrandimento sullo spazio regionale, una gamma di
topoi locali articolati secondo schemi sempre più standardizzati. Ripercorriamo
dunque le strade di queste città settecentesche e le loro principali
attrattive attraverso le pagine più significative dei viaggiatori inglesi.
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Firenze |
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John
Boyle, in una lettera del novembre 1754 da Firenze, dove era tornato dopo una
breve escursione a Pisa e Livorno, ci presenta in poche parole i vari luoghi
comuni legati all'immagine della città nella mente del viaggiatore inglese
del tempo e che rappresentavano, di fatto, delle attrattive importanti per chi
sceglieva di stabilirsi temporaneamente in questa città:
"Eccomi di nuovo stabilito in mezzo a tutte le rarità del mondo
europeo; di nuovo, mio caro amico, nelle vicinanze della Venere [la
Venere dei Medici, nella Galleria degli Uffizi];
di nuovo vicino al Ponte della Trinita [sic];
di nuovo sotto la protezione e spesso sotto il tetto di un gentiluomo che si
ingegna per renderci felici, il Sig. Horatio Mann, ministro di Sua Maestà
presso l'imperatore, quale Duca di Toscana."
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Firenze.si
presenta, in effetti, per la maggior parte di questi viaggiatori, come un luogo
incantevole, sede di tesori artistici tra i maggiori nel mondo. Essi sono ancora
memori, e si fanno rinnovati portatori, dello stereotipo di origine medievale
legato alla città -"Firenze, la bella" - che si trova già
nella Cosmographia di Sebastian Münster, sintesi del sapere geografico
medievale (prima edizione tedesca nel 1544): |
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"Firenze
... è bella al limite del possibile, e possiede tutto ciò che
può incantare gli occhi." (Thomas Gray) |
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"Firenze è
davvero un luogo piacevolissimo dove abitare: la valle dell'Arno è
una delle più belle del mondo, e la città stessa, per palazzi,
statue e dipinti, è tra le prime in Italia." (Joseph
Spence)
Questi viaggiatori avvertono, a Firenze, un che di particolare rispetto al resto
dell'Italia, un qualcosa nel gusto dei toscani che credono di ravvisare solo
nell'architettura:
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"Firenze
sembra essersi accaparrata i tesori della terra intera. E' quello che gli antichi
poeti dicono della Gran Bretagna, 'Un mondo a sé, pieno di meraviglie'.(John
Boyle) |
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"Non
potete immaginarvi una posizione più incantevole di quella di Firenze.
E' adagiata in una fertile e ridente valle, irrorata dall'Arno, che scorre attraverso
la città, e nulla può sorpassare la bellezza e magnificenza dei
suoi edifici pubblici, specialmente della cattedrale, la cui imponenza mi riempie
di meraviglia. I palazzi, le piazze, le fontane, le statue, i ponti, non soltanto
sono pieni di eleganza e di nobiltà, ma dimostrano un gusto tutto diverso
da quello che regna negli edifici pubblici di altri paesi."
(Lady Mary Wortley Montagu) |
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Un
gusto che, tuttavia, non sempre riceveva lodi incontrastate. Ecco il giudizio
di Gibbon su Palazzo Pitti, che era uno degli edifici fiorentini più
visitati, assieme agli Uffizi, perché entrambi sedi di famose gallerie
d'arte: |
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"L'architettura
... mi pare bella di quella bellezza che conviene alle case sovrane, grande
e severa più che leggera e graziosa. ...Detesto soprattutto quelle bugne
quadrate che servono soltanto a distruggere le belle proporzioni di una colonna.
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E lo stesso Boyle, che
tanto ammirava Firenze:
"Una facciata molto sontuosa, ma pesante; veramente
toscana, che duri quanto il mondo."
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Ma
in generale i vari palazzi dei Medici, dei Pitti, degli Strozzi ricevevano l'ammirazione
degli inglesi del Settecento, assieme a quello che era giudicato il più
bel ponte del mondo, il Ponte di Santa Trinita, che colpiva per l'eleganza dei
suoi archi cicloidali. Al contrario, questi inglesi, come ci fa notare il Kirby,
"non avevano alcun interesse per i primitivi, parlavano raramente di Fiesole,
o delle sculture di Michelangelo. Di rado notavano il Perseo del Cellini e quasi
mai sembravano aver sentito parlare di Verrocchio o Donatello o Botticelli".
Al di là della decodificazione iniziale della città, che riproduce
piuttosto acriticamente lo stereotipo fissato nel tempo, si rilevano, comunque,
almeno in alcuni dei viaggiatori selezionati, delle correzioni personali all'immagine,
dovute alla percezione di alcuni aspetti della realtà urbana, ai loro
occhi, contrastanti con lo schema mentale di partenza. |
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Viene spesso fatto
riferimento, in particolar modo, ad uno stato di abbandono in cui i "tesori"
fiorentini venivano a trovarsi. Un esempio era costituito da alcuni edifici
pubblici che attendevano da diverso tempo di essere terminati; come la Cappella
di S. Lorenzo, la quale, iniziata nel 1604 dai Medici e destinata a raccogliere
i resti dei maggiori esponenti di quella famiglia, non era stata ancora
completata. |
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"Il
sig. Addison, che venne a Firenze durante il regno di Cosimo III, dice che
'la Casa dei Medici sarà probabilmente estinta, prima che il loro
mausoleo sia finito'. Il suo giudizio si è rivelato vero: sono estinti
e il mausoleo è incompleto." (John Boyle)
"Firenze è una nobile città,
che mantiene ancora tutti i tratti di una maestosa capitale: piazze, palazzi,
fontane, ponti, statue e arcate. Non c'è bisogno di dire che le chiese,
qui, sono magnifiche ... Tuttavia, diverse di queste chiese sono senza facciata
per mancanza di denaro per completare i progetti." (Tobias Smollett) |
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Ciò diminuisce la bellezza della città, e si arriva a parlare
di "visibile stato di decadenza". Certo è che la Reggenza
lorenese non si preoccupò di farsi continuatrice di un'architettura
legata alle "grandiosità ricercate", quale era quella
di impronta medicea, dal momento che - afferma Cresti - "il metro
della 'magnificenza' non rientrava nella mentalità lorenese.
Il nuovo corso politico, invece, ispirandosi all'idea illuministica,
sceglieva di riconoscersi nell'architettura dell' utile".
Ma c'è di più, in questi resoconti di viaggio: si entra
addirittura in merito a quello che si chiamerebbe oggi 'salvaguardia e
valorizzazione dei beni culturali'.
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"Il
Palazzo Vecchio è posto in un angolo di una larga piazza irregolare,
nella quale si trovano molte statue famose, prodotte dalle migliori mani moderne.
La maggior parte di esse, in particolare quella di Davide e Golia, sono molto
danneggiate, nonostante le buone condizioni atmosferiche. Se le statue di marmo
subiscono danni in Italia, cosa devono subire in Inghilterra?" (John
Boyle)
"Ti avevo accennato al fatto che alcuni dei migliori dipinti giacciono
nell'oscurità. Ci sono evidenti esempi di questo a Palazzo Pitti, dove,
nell'appartamento grande, affollato come è di innumerevoli belle opere,
molte di esse sono perdute per mancanza di un'adeguata quantità di luce".
(John Boyle) |
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Ma, dopo la parentesi dei contributi originali, evidentemente
la forza dello stereotipo, nella sua metastoricità, è tale da
non poter essere intaccata anche da precise informazioni visive, le quali
restano pur sempre relative, nella loro contingenza storica. Tant'è
che lo stesso viaggiatore che ci parlava di "evidente stato di decadenza",
finisce con queste parole:
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"ma
con tutte le sue imperfezioni, viene giustamente definita 'Firenze, la bella'."
(John Boyle) |
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Livorno
Vogliamo iniziare la panoramica offertaci dai viaggiatori inglesi sulla città
di Livorno ancora con un brano di John Boyle, il quale, nel privilegiare lo
studio di aspetti quali "costituzione, commercio, clima, popolazione"
allo studio di "statue, palazzi e dipinti" e nel tentativo di mantenere
un "atteggiamento scientifico" nelle sue descrizioni, si rivela un
vero erede dello spirito sperimentale di suo nonno Robert Boyle, uno dei fondatori
della Royal Society. Egli riesce infatti a fornire, delle città visitate,
un quadro sempre molto preciso e dettagliato che ci permette di rendere chiari
i vari elementi della realtà urbana privilegiati dai viaggiatori inglesi
nel periodo considerato.
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"Ieri
siamo andati a visitare una delle maggiori città commerciali in Italia,
Livorno. E'' un porto franco, che appartiene ai duchi di Toscana, sul Mediterraneo.
Questo mare, talvolta mosso e minaccioso, ci apparve tranquillo e calmo
come uno specchio. Le strade di Livorno sono diritte; la strada principale
è molto grande e, proporzionalmente, lunga. La piazza è molto
spaziosa e bella, irregolare, ma originariamente intesa per avere palazzi
su ognuno dei quattro lati, esattamente rispondentisi l'uno con l'altro.
La grande chiesa, che occupa parte della piazza, è magnifica; il
soffitto finemente dipinto. Le case furono originariamente costruite basse
e regolari. Aumentando la popolazione, sono stati aggiunti piani su piani
ed è stata del tutto interrotta l'uniformità. Precedentemente,
degli affreschi decoravano la facciata di ogni casa sulla strada grande.
Con l'andare del tempo, le condizioni atmosferiche e le alterazioni hanno
quasi completamente rovinato i dipinti. Livorno, prima dell'ascesa dei Medici,
apparteneva alla Repubblica di Genova, che la cedette a Cosimo, primo Granduca
di Toscana, in cambio di Sarzana. Entrambe le parti avevano il loro vantaggio
nello scambio. Sarzana era situata al confine con Genova, Livorno al confine
con la Toscana; ma Cosimo e i suoi due figli Francesco e Ferdinando, che
gli succedettero, giudiziosamente previdero il vantaggio che poteva portare
la posizione della città. Costruirono mura tutto intorno e le munirono
di forti. Ripulirono e prosciugarono le paludi, che a lungo avevano reso
il posto insalubre e spopolato. Decisero la libertà del porto, e
crearono due spaziose insenature, una più larga, l'altra per bastimenti
più piccoli. Fecero della città un asilo contro gli arresti
per debiti. ...Né la devozione cristiana di Cosimo, né di
Francesco, né perfino di Ferdinando, che era stato un cardinale,
impedì loro di far stabilire a Livorno quei necessari strumenti del
commercio, gli ebrei. I prosperanti figli di Israele hanno assegnato un
quartiere particolare della città per le loro abitazioni. Attualmente
[1754] il loro numero è di 14.000 persone.
Tutte le religioni vengono pacificamente esercitate dai livornesi. ... La
popolazione di Livorno oscilla da 43.000 a 45.000 persone, rappresentanti
tutte le nazioni sulla faccia della terra." |
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I
viaggiatori inglesi del periodo preso in esame, risultano molto attenti alla
situazione della città, e soprattutto del porto, di Livorno. Una Livorno
che sembra più inglese che toscana, e non solo nella libertà di
commercio o nella tolleranza religiosa. L'ammirazione si riflette sempre anche
sull'architettura della città, che piace per le sue linee rigorose ed
essenziali, ed anche in questo campo gli inglesi si sentono di aver dato contributi
importanti: |
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"A
Livorno si vedono immediatamente i benefici del commercio e degli affari:
la città appare viva, la gente ha un'aria di contentezza ... Dicono
che la cattedrale sia stata costruita da Inigo Jones, e ci sono piazze su
ogni lato della chiesa non dissimili da Covent Garden. Anche il molo, si
dice che sia stato costruito sotto la direzione di un inglese,figlio del
grande conte di Leicester al tempo della Regina Elisabetta, così
che dalla gente, dalla città, dal porto e da tutto quanto sembrava,
a Livorno, di essere quasi in Inghilterra." (Joseph Spence) |
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George Berkeley, che
della Toscana, dove trascorse cinque mesi, in attesa di proseguire verso
l'Italia meridionale, ci lascia un quadro sconsolante ("ho
avuto modo di visitare Pisa, Lucca, Pistoia, Firenze ecc .... Ma non ho
visto nulla che potrebbe farmi desiderare di trascorrere la vita fuori dell'Inghilterra
e dell'Irlanda. Le descrizioni dei poeti latini mi avevano fatto pensare
ai campi elisi e all'età dell'oro. Secondo me l'Inghilterra è
più poetica") dobbiamo ritenere che faccia un onore alla
città di Livorno se gli dedica almeno queste poche parole:
"Questa città è la più
proporzionata e regolare che abbia visto in Italia. Ha molti abitanti ed
è un grosso centro commerciale. Ci sono numerose famiglie di mercanti
inglesi, molto ricche e con un tenore di vita superiore a quello dei nobili." |
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La
presenza, a Livorno, (contrariamente alle altre città del Granducato),
di un ceto borghese imprenditoriale portò nel corso del '700 ad un notevole
sviluppo economico del porto labronico, e ad un incremento della popolazione
straordinario rispetto al resto dello Stato, che invece aveva visto e continuava
a vedere diminuire la popolazione urbana e ad accentuarsi progressivamente quella
rurale. Inoltre il governo lorenese, nell'intento di sviluppare la navigazione
mercantile toscana nel Mediterraneo, aveva stipulato trattati di pace, tra il
1747 e il 1750, con sultani arabi e tunisini, lasciando cosi prevedere la maggiore
affluenza di traffici nel porto di Livorno con un conseguente aumento di popolazione.
I privilegi concessi nel 1748 richiamarono così tanta nuova gente che
nel 1751 e 1758 si rese necessario l'ampliamento della città, mediante
la costruzione, presso il lazzaretto seicentesco, del nuovo sobborgo di S. Jacopo.
Non è facile stabilire la popolazione effettiva del tempo: Repetti registra
per l'anno 1745 28.040 abitanti, ma precisa che sono esclusi i forestieri e
la popolazione avventizia del porto. L'aumento della popolazione in quegli anni
risulta comunque evidente da un confronto tra le cifre riportate, nei loro resoconti
di viaggio, da Spence e da Boyle: Spence, nel 1732, parla di 35.000-40.000 anime;
Boyle, nel 1754, di 43.000-45.000.
Quello che, col passare degli anni, viene sempre meno compreso è il fatto
che Livorno sia allo stesso tempo porto franco e piazzaforte militare:
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"Credo
sia stata una cattiva idea quella di aver fatto di Livorno una piazzaforte
e porto franco a un tempo. Condizioni che dipendono da due spiriti incompatibili.
Il dispotismo di un governatore, le pattuglie, le porte, un numero di fannulloni
armati, difficili da tenere a freno nelle piccole cose, poco si accordano
con la dolce indipendenza del commerciante. Le fortificazioni hanno messo
un termine fatale all'ingrandimento della città; ed è molto
incerto che ne abbiano assicurato la libertà."
(Edward Gibbon) |
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In
effetti, questi viaggiatori colgono, di frequente, quelle che erano delle incongruenze
inevitabili in un periodo di transizione da antico regime a stato moderno, anticipando
spesso quello che sarebbe stato il nuovo corso della politica di Pietro Leopoldo.
E infatti solo pochi anni dopo, nel 1776, Pietro Leopoldo abolì il divieto
di fabbricazione tra le mura e le fortificazioni della città e la linea
delle cosiddette guglie, per uno spazio di almeno 500 metri, pertanto ebbero
origine i fiorenti sobborghi di Livorno, primo fra tutti Ardenza.
Le grandi attenzioni mostrate, con tanta scrupolosità, verso la situazione
reale delle fortificazioni, delle guarnigioni e della artiglieria testimoniano
come i viaggiatori inglesi tenessero sempre un occhio vigile riguardo alla situazione
politica della città labronica, decisi a puntare l'indice accusatore
verso tutte quelle circostanze che non si rivelavano favorevoli alla colonia
inglese presente nella città. Ed è certo che l'Inghilterra, proprio
perché assai interessata alla permanenza del porto franco di Livorno,
avrebbe visto di buon occhio una Toscana indipendente e possibilmente repubblicana;
atteggiamento, del resto, resosi manifesto in occasione della discussione europea
sulla successione medicea.
C'era poi un'altra cosa che non doveva piacere molto agli inglesi: la presenza,
nella città, della nutrita colonia ebrea. L'atteggiamento di rivalità,
per quanto mascherato, traspare inevitabilmente nella maggior parte dei resoconti
di questi viaggiatori. Addison, da parte sua, l'aveva detto molto francamente: |
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"Si contano in
città quasi 10.000 ebrei, molti di essi ricchissimi, e così
grandi trafficanti che i nostri agenti inglesi si lamentano che hanno nelle
loro mani la maggior parte del nostro commercio." |
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Pisa
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"Ritorniamo, attraverso una foresta davvero
deliziosa [la macchia di Tombolo], da Livorno a Pisa, distanti solo quattordici
miglia. Gli archeologi affermano ... che Pisa fu originariamente costruita
da una colonia di greci, che stabilitisi in Etruria, chiamarono la loro nuova
città con lo stesso nome di quella che avevano abbandonato nel Peloponneso.
Virgilio viene portato a testimonianza di questa affermazione ... Virgilio,
nella sua Eneide, si è preso molta cura di celebrare questo luogo che
era molto noto al suo tempo. Perciò non posso fare a meno di compiacermi
al pensiero di trovarmi adesso nella terra classica." (John Boyle)
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Si
ha, nei confronti di Pisa, un atteggiamento del tutto diverso da quello mostrato
verso la vicina Livorno. Quella, città moderna, alla quale i traffici
avevano portato infiniti benefici, appariva come una "città viva";
questa, con il suo glorioso passato di Repubblica marinara, appariva ora, nella
sua profonda decadenza, una "città morta". Così, avvicinandosi
a Pisa, scatta nel viaggiatore un meccanismo di recupero del passato; di un
passato, del quale rimangono adesso solo i segni esteriori. |
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Recuperando
l'immagine classica della città, si contrappone la situazione originaria:
"La posizione della città, sulle sponde di un bel fiume, in una
campagna piana e fertile, l'accesso da ogni lato facile e delizioso, l'aria
salubre e calda come quella di Napoli, erano circostanze adatte al lusso dei
greci" (John Boyle)
allo stato di decadenza attuale:
"ti avevo detto che pensavo di stabilirmi qui [Pisa]. E' impossibile
... allo stato attuale, solo i cammelli possono abitarvi. E in verità
i cavalli possono pascolare e ingrassarsi nelle strade. Creature umane, a
meno che non siano italiani, non possono trovare alloggio o mezzi di sussistenza.
E' la seconda città della Toscana; è un arcivescovado e un'università.
Titoli pomposi! ma titoli e basta." (John Boyle)
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L'immagine
della Pisa contemporanea, in realtà, era già da tempo andata cristallizzandosi,
e simbolo privilegiato dello stato di decadenza appare proprio quello dell'
"erba che cresce nelle strade", già presente in Misson, alla
fine del secolo precedente ed ancora riproposto da Smollett nel 1764: |
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"Questa nobile città, in passato capitale
di una prosperosa e potente repubblica, che conteneva più di 150.000
abitanti dentro le sue mura, è adesso cosi abbandonata che l'erba cresce
nelle strade; e il numero degli abitanti non supera i 16.000."
Sul numero degli abitanti, Gibbon
offre cifre diverse, pur compiendo il viaggio nello stesso anno di Smollett,
il 1764:
"[Pisa] E' stata tuttavia una repubblica, le cui flotte coprivano il
Mediterraneo e che aveva 150.000 cittadini entro le sue mura. Oggi, ne ha
22.000 e l'arte di costruire case pare vi sia sconosciuta."
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Ma quali erano, veramente, le condizioni in cui Pisa era venuta a trovarsi
nel Settecento, e come si presentava realmente al viaggiatore? Lucia Nuti,
in un saggio sulle guide di Pisa tra '700 e '800, ha ricostruito questo quadro
della città:
"Pisa nella seconda metà del Settecento è una tranquilla
città del Granducato sotto il cui cielo si vive una vita che secoli
di decadenza e di ristagno economico hanno saputo preparare. La popolazione,
circa 16.000 anime, priva di importanti risorse economiche, si trova in uno
stato 'languido e povero' e sembra aver ormai acquisito, quasi geneticamente,
i tratti di un carattere 'indolente e torpido', 'superstizioso perché
ignorante', pronto a degenerare nella rissa e insensibile ai castighi. Ai
margini dell'abitato paludi e acquitrini hanno riconquistato i terreni continuamente
contesi loro dalla civitas; i fossi attorno alle mura e la fagianaia pieni
d'acqua stagnante e putrida, le diacciaie prive di scoli, invase dalle erbe
palustri e dai ranocchi, sono i fertili vivai delle febbri, divenute endemiche.
La mortalità è alta. All'interno della città, piena di
mignotte e di scioperati, la situazione igienica è pessima: le fogne
non pulite mandano fetide esalazioni nelle strade, impantanandole in caso
di pioggia. La pulizia non è osservata ed in particolar modo le vie
più piccole sono ricettacoli d'immondizie. Tuttavia i forestieri non
mancano e Pisa è ancora considerata una tappa d'obbligo dei voyages
d'Italie. Il 'forestiere erudito' che giunge alle sue porte, ricalcando
le orme di più illustri predecessori, difficilmente può sfuggire
al suo fascino di città in decadenza, in cui i segni di un passato
maestoso, costruiti per una misura più grande, si innalzano in un contesto
misero e fatiscente."
Quello che più viene avvertito è, infatti, il forte contrasto
tra la magnificenza degli edifici e la povertà e desolazione della
ambiente urbano:
"Pisa, come Firenze divisa dall'Arno, è
situata in una bella pianura. Una larga, magnifica banchina, con case su entrambi
i lati del fiume, varie statue, conventi e chiese, la cattedrale, il battistero,
il ponte, il palazzo del Comune e la torre pendente sono edifici ornamentali
che, a dispetto della povertà e desolazione, danno un'aria di sontuosità
a Pisa, e la fanno apparire come una città meravigliosa che qualche
violenta pestilenza ha di recente spopolato." (John Boyle)
Le cause della crisi stanno, agli occhi dei viaggiatori inglesi, innanzitutto
nella perdita della libertà per mano dei fiorentini; e il motivo della
libertà politica è sempre presente in questi resoconti anche
se, nel caso di Pisa, esso non risulta molto articolato. Quello che risulta
più evidente è l'altro motivo, certo più contingente:
la creazione del vicino porto labronico. Pisa risulta essere stata l'unica
vittima dell'intensificarsi delle attività di Livorno:
"Solo Pisa soffrì del compimento di
un piano così saggio [il porto franco]. Essa divenne presto una città
deserta: i suoi abitanti l'abbandonarono. Corsero a incontrare quel sorprendente
concorso di mercanti che affollavano ogni giorno Livorno. Infelice Pisa! una
volta una potente repubblica, poi fatta schiava nelle mani di tanti padroni,
ora... 'una città, università, et niente'." (John
Boyle)
I Medici avevano comunque lasciato segni anche utili della loro potenza.
L'imponente acquedotto, molto ammirato, era stato opera di Ferdinando I:
"L'acquedotto, che rifornisce gli abitanti
di acqua, è una costruzione nobile e semplice. E' costruito su larghi
archi di mattoni per la lunghezza di quattro miglia. Guardai con meraviglia
un'opera pubblica così costosa e così utile. Due grandi serbatoi
ricevono l'acqua e riforniscono due fontane, che danno acqua continuamente
e sono allo stesso tempo un ornamento, un refrigerio, una comodità
e un vantaggio per la città." (John Boyle)
Ma, in generale, non era giusto rimproverare ai primi Medici di aver condotto
una politica troppo dannosa nei confronti di Pisa. Anzi, Cosimo I, Francesco
I e Ferdinando I, che regnarono dal 1537 al 1609, fecero rientrare nella loro
politica territoriale, assieme alla costruzione della nuova città e
del porto di Livorno, il progetto di rivitalizzazione della antica città
di Pisa, in modo da creare - come afferma Rombai - "un unico sistema
urbano bipolare, con funzioni di grande centro commerciale e manifatturiero,
collegato con i traffici marittimi e con il complesso delle idrovie che da
Firenze (tramite l'Arno, i due laghi-paduli di Fucecchio e Bientina e il Serchio)
facevano capo sia al vecchio porto fluviale di Pisa che al nuovo emporio labronico,
al primo collegato tramite il canale navigabile dei Navicelli".
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In
realtà, quindi, la decadenza di Pisa andava cercata in epoche più
lontane ed in motivi prima naturali e poi politici. Il fatto è che le
alluvioni dell'Arno allontanarono a poco a poco la città dal mare, trasferendo
le funzioni portuali ad un Porto Pisano già abbastanza distante (funzioni
che poi furono ereditate da Livorno). Subentrò così la decadenza
marittima e poi terrestre, che portò allo spopolamento graduale della
città. Ma non si raggiunsero mai, nella popolazione, le cifre esorbitanti
di cui parlano Gibbon e Smollett (150.000 abitanti!). La cifra massima raggiunta
nel 1228 sarebbe stata di circa 40.000 abitanti. Il censimento di Cosimo I dei
Medici (1551), primo dato ufficiale, registrò 9.712 anime; dopodiché
la popolazione andò aumentando, seppure molto lentamente, durante i secoli
successivi (nel 1745, vi erano 12.406 abitanti), ma si deve attendere l'Ottocento
per vedere la città rifiorire veramente, specie dopo l'apertura delle
ferrovie, che valorizzarono nuovamente la sua posizione. |
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Per quanto riguarda gli aspetti architettonici della città, l'occhio
del viaggiatore si sofferma chiaramente su quelli che sono i simboli immutati,
ancora oggi, dell'immagine di Pisa: la Piazza dei Miracoli e il lungarno;
meno importante risulta la bella Piazza dei Cavalieri.
"C'è una bella banchina di pietra su
entrambi i lati del fiume Arno, che scorre attraverso la città, e tre
ponti lo superano; tra questi, quello centrale è di marmo, una graziosa
opera architettonica." (Tobias Smollett)
Ma è la Piazza dei Miracoli lo spazio principe della città:
"Non puoi dubitare che abbia visitato il Campanile,
o Torre Pendente." (Tobias Smollett)
Addison, che a Pisa dedica solo le seguenti parole, riconosce alla piazza
un ruolo privilegiato:
"Da Livorno mi recai a Pisa, dove c'era ancora
l'ossatura di una grande città, sebbene mezza vuota di abitanti. La
Cattedrale, il Battistero e la Torre Pendente sono veramente degni di essere
visti, e sono costruiti secondo lo stesso stile del Duomo di Siena."
E' questo un errore che viene riportato invariabilmente da tutti i viaggiatori:
il complesso architettonico di Piazza dei Miracoli viene interpretato come
gotico (lo stile è, in realtà, romanico-pisano) e, come tale,
non gradito da tutti i viaggiatori inglesi:
"La Cattedrale è oscura e cupa, vasta e sontuosa, un edificio
gotico; un che di singolare, e non facilmente descrivibile, disgusta l'occhio
alla prima entrata dentro la chiesa: credo a causa della confusione di ordini;
archi gotici sono mischiati a colonne corinzie." (John Boyle)
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Se
a Pisa Boyle aveva ammirato con tanta meraviglia un'opera grandiosa dei Medici
come l'acquedotto, poco distante, sulla strada per Lucca, mostra altrettanta
ammirazione per un'opera esemplare dell'architettura ufficiale dei Lorena: i
Bagni di Pisa. Riportiamo, di seguito, l'intero brano: |
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"[I Bagni di Pisa] sono distanti due miglia
dalla città. Sono grandi, belli e comodi, molto più spaziosi,
nel disegno, di quanto siano quelli che si trovano nella contea del Somerset.
Ogni persona puo occupare una camera singola, nella quale si trova un bagno,
un caminetto, e posto sufficiente per un letto. Le acque sono calde come quelle
dei bagni della Regina, e quasi della stessa natura. Le tariffe per l'alloggio
(parte delle entrate del Granduca) sono care per essere in Italia, ma meno
care che a Tunbridge, Bath e Bristol. Tutte le provviste provengono dalla
vicina Repubblica di Lucca. La città di Pisa non può fornire
carne, e persino verdure o frutta di alcun tipo. Le costruzioni sono nuove.
Una romantica rupe si erge subito dietro, coperta per la maggior parte da
un bosco di arbusti di ginepro e mirto. Le costruzioni, la rupe e il bosco
rendono lo scenario incantevole. Durante la stagione, che è a metà
estate, numerose persone si recano a questi bagni, più per il beneficio
del bagno che per quello di bere le acque.(*) Quando la compagnia è
assente, ho visto raramente un posto più magnificamente adatto allo
studio e alla contemplazione."
(*) nota del curatore: "Le calde sorgenti della Toscana furono ostruite
dai barbari. La famosa contessa Matilde [di Canossa], nel 1113, le rimise
in uso; ma le successive età barbariche le ostruirono di nuovo,
finché, nell'anno 1743 circa, furono scoperte ai piedi del Monte
di San Giuliano non lontano da Pisa, ed essendo state ricostruite, esse
sono oggi [1763] molto frequentate per le loro virtù curative.
Univ. Mod. Hist. vol.XIII, p.269" (John Boyle)
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La ristrutturazione
delle fabbriche termali e delle locali infrastrutture era infatti iniziata
nel 1744, come base di un processo di formazione urbana, e costituisce un
esempio significativo del nuovo tipo di architettura, priva di ostentazione
e sempre rivolta a finalità di servizio ben precise, promossa dai
Lorena. I bagni di San Giuliano e il nuovo sobborgo livornese di San Jacopo
furono, insomma, gli interventi primi e già significativi dell'architettura
ufficiale del regime lorenese. |
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Siena
Siena, come e più di Pisa, si configura nella
percezione dei viaggiatori inglesi come una terra abbandonata, le cui sorti
vengono decise in luoghi lontani e in base ad interessi del tutto indipendenti
da quelli locali. Ritroviamo, nelle pagine dedicate a questa città,
il tema caro ai viaggiatori inglesi della perdita della libertà quale
causa prima della decadenza e dello spopolamento.
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"E'
impossibile, per un uomo che conosce un po' la storia, non sospirare per questa
che una volta era una Città e Repubblica famosa, che quando fiorì,
per quanto piccola, non fece certo una disprezzabile figura in tutta Europa,
a quanto risulta dalla fama del suo stemma e delle sue arti; e a quei tempi,
tre o quattrocento anni fa, conteneva entro le sue mura novanta o centomila
abitanti, mentre adesso [1766] sono al massimo dodici o quattordicimila. Una
peste l'ha molto spopolata; ma la perdita della propria libertà procurò
la ferita incurabile, che ha continuato ad esaurire e disperdere la sua forza."
(Samuel Sharp) |
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Lo
spopolamento, procurato dai fiorentini, sembra però ritorcersi contro
la stessa capitale accentratrice:
"Il Granduca ci ha piuttosto rimesso con Siena, sebbene sia una regione
tanto bella. Prima ne ricavavano di solito 200.000 corone l'anno, ma adesso,
da che i fiorentini l'hanno industriosamente spopolata, il caso è diverso."
(Joseph Spence) |
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Addison riferisce un curioso aneddoto, secondo cui,
nel giorno di S. Giovanni Battista, quando a Firenze si svolgeva una solenne
cerimonia e le parate di ogni città sfilavano in processione davanti
al Granduca, Siena veniva per ultima, spinta da dietro, per mostrare la propria
riluttanza.
Gibbon, che è più cauto nell'individuare le vere cause della
decadenza di Siena, ci informa sul numero degli abitanti (nel 1764):
"la peste e le altre sciagure di Siena ... hanno
ridotto il numero dei suoi cittadini da ottantacinquemila a diciassettemila".
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Certo,
il governo mediceo non aveva operato nei confronti di Siena con lo stesso impegno
che aveva dimostrato verso Pisa e la città andò sempre più
sclerotizzandosi nei propri problemi, senza alcun tentativo di rilancio economico.
Ecco come presenta la situazione Rombai: "Lo Stato Vecchio era abbondante
di traffici e di manifatture, ma sempre a corto di derrate alimentari. Lo Stato
Nuovo, essendo scarsamente popolato, aveva un surplus di grano e grandi pascoli
per le pecore. Si ebbe pertanto un rapporto 'coloniale' tra l'uno e l'altro:
gli agrari senesi vendevano grano e prodotti dell'allevamento delle pecore e
compravano manufatti o merci pregiate provenienti dallo Stato Vecchio. Questo
rapporto, più sfavorevole di per sé ai senesi, fu aggravato ulteriormente
da una legislazione vincolistica, che teneva il prezzo del grano più
basso che fosse possibile, per favorire i lavoratori e in definitiva anche gli
imprenditori dello Stato Vecchio, scoraggiando o vietando addirittura la sua
esportazione fuori del Granducato". I dati sulla effettiva consistenza
demografica nel passato sono piuttosto incerti: non sappiamo se si possa parlare
davvero degli 85.000 abitanti di Gibbon o addirittura dei 90.000-100.000 di
Sharp, anche se ci sembrano comunque cifre esagerate. Il primo dato sicuro è
quello del censimento del 1557, che registrò 10.500 abitanti. Nel 1640
erano diventati 16.000; poi vi fu una flessione e nel 1745 risultano abitare
in Siena 14.645 persone.
Che i senesi continuassero, però, ad essere un popolo indipendente, almeno
nello spirito, era reso evidente, per i viaggiatori, anche dal fatto che essi
conservavano gelosamente le loro tradizioni e continuavano ad avere manifestazioni
particolari, come il Palio. Joseph Spence, proveniente da Roma e diretto a Firenze,
si trova ad arrivare nella città proprio il 2 luglio, giorno del Palio,
del 1732; ecco cosa racconta in una lettera alla madre:
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"vi
giungemmo il giorno della loro grande festa e vedemmo una corsa di cavalli
alla loro moda, senza selle e staffe. Le donne di Siena sono estremamente
graziose e il loro abito lo è ancora di più. I capelli vengono
riuniti generalmente in tre trecce avvolte in cima alla testa in forma di
ghirlanda e portano come copricapo un cappellino bianco, largo la metà
di una mano, su una parte ed un mazzetto di fiori dall'altra." |
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Lo
stesso viaggiatore, tra i suoi appunti, aveva buttato giù anche alcune
note generali sulla città: |
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"Siena
è stupendamente situata su un colle, e le ville si disperdono qua e là
su ogni lato ... intorno, sparse, delle vigne che ricordano i nostri campi di
luppolo. Dicono che il perimetro sia di sette miglia. Ci sono molte delle loro
torri onorarie a pianta quadrata e fatte di mattoni, piuttosto brutte e senza
iscrizioni. La Cattedrale appare di cattivo gusto, specialmente per gli strati
di bianco e di nero. ... Ospedale bello e arioso." (Joseph Spence)
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Il
passo riflette, da una parte, un interesse per la situazione urbanistica di
Siena che è piuttosto raro in questi viaggiatori. Difatti la prevalente
impostazione classicistica fa sì che non si spenda nemmeno una parola
di lode per la articolazione urbana medievale, che portò Siena a svilupparsi
lungo la dorsale di tre colli, nella tipica configurazione ad ipsilon.
D'altra parte, il brano riproduce un atteggiamento invece molto comune negli
altri viaggiatori inglesi del periodo, riguardo alle riserve espresse sugli
edifici senesi in genere e sul Duomo in particolare, vero gioiello dell'architettura
gotica. Come abbiamo già detto, nei nostri viaggiatori si era infatti
venuta a stabilire una netta distinzione tra i concetti di 'gotico' e di 'bello'.
Addison, però, all'inizio del secolo, del Duomo aveva dato un giudizio
tutto sommato positivo:
"Non c'è niente in questa città così straordinario
come la Cattedrale, che si può guardare con piacere dopo che si è
visto S.Pietro, sebbene sia di tutt'altra fattura e possa essere considerata
solo come uno dei capolavori dell'architettura gotica."
Restano le riserve in generale sull'arte gotica, ma
si capisce che ne ha subito il fascino. Ecco, invece, il giudizio di Walpole:
"Nel giro di tre ore abbiamo visto tutto quanto c'è di buono in
questa città: è vecchia e sciocca, con pochissimi abitanti.
Non devi credere a ciò che dice il Sig. Addison sulla magnifica bellezza
del duomo: i materiali sono più ricchi ma la fattura e il gusto non
così belli come in diversi altri che ho visto."
Fra i due estremi, c'era chi, non volendo prendersi
la briga di sconfessare apertamente un'autorità come Addison, ma allo
stesso tempo sentendo di aderire personalmente agli schemi estetici del tempo,
non si decideva ad esprimere un giudizio chiaro e sincero:
"La Cattedrale è un edificio gotico molto curioso; i senesi lo
ritengono bello e credono che se si trovasse a Roma avrebbe il suo onore anche
vicino a S. Pietro; ma mi chiedo se non sia più estroso che bello ...
ciò che lo rende così eccezionale è il fatto che alcuni
blocchi sono bianchi e altri neri; c'è una gran parte dell'edificio
bianca, ma anche di nero,ce n'è in considerevole quantità; questa
screziatura, a prima vista, colpisce; ma mi chiedo se, nel complesso, resisterà
all'esame critico." (Samuel Sharp)
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Non
poteva mancare, nell'analisi sulla Siena dei viaggiatori britannici del '700,
almeno un richiamo a James Boswell, che si fermò più di un mese
in questa città (dal 25 agosto al 29 settembre 1765). Sebbene il tipo
di memorie lasciate risultino in genere poco interessanti ai nostri fini, vogliamo
qui presentare un brano di una lettera che Boswell scrisse dall'Italia al suo
caro amico Rousseau, in cui si apprendono le sue impressioni su Siena e, in
particolare, sull'alta società senese. |
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"Da
Firenze mi recai a Siena, dove trascorsi una parte della mia vita in perfetta
felicità. La nobiltà, là, forma una società
della specie più amabile. Hanno una semplicità, una naturalezza,
un'allegria che non si può immaginare senza esservi stati. Non hanno
maniere mondane, niente di quell'aria affettata che il filosofo riconosce
nelle persone artificiali. Voi, signore, delicato come siete, dovreste vivere
nella società senese. Poiché non v'è Corte e i nobili
pensano solo a vivere delle loro modeste entrate, non si vedono a Siena
quei gentiluomini di grandi interessi che rovinano qualsiasi compagnia nelle
città dove si pensa di ottenere qualcosa facendo la corte. I senesi
sono indipendente, equi, e contenti di essere così, e quando viene
a trovarli un principe importante, è cortesemente ricevuto, ma non
si fanno a pezzi per lui. ... Non ho mai visto tanta di quella che chiamerei
vera umanità come a Siena. La gente, lì, non mette in imbarazzo
uno straniero facendogli un ricevimento studiato. Egli viene raccomandato
da qualche persona di riguardo, come lo fui io da Lord Mountstuart. Lo accolgono
naturalmente. Ne nasce subito una facile conversazione. Egli dimentica di
essere straniero, e non lo è più. Avevo un alloggio eccellente
a Siena. Mangiavo bene. Il vino della zona era molto buono, e nei giorni
di festa mi concedevo un delizioso Montepulciano. L'aria è fresca
e il tempo è quasi sempre bello. La mia salute fu ristabilita molto
velocemente. Un abate di talento ... mi aiutava come insegnante di italiano.
Ogni mattina per due ore leggevo il divino Ariosto, e potete immaginare
l'effetto che ebbe sulla mia anima romantica. Scrivevo anche in italiano
con la stessa regolarità e, poiché non usavo altra lingua
nella conversazione, feci rapidi progressi. Il dialetto senese è
il più piacevole di tutta Italia. Per me era una melodia continua.
...Un professore di musica, che aveva un gusto molto raffinato, veniva da
me ogni pomeriggio e si cantavano e suonavano delle belle arie col flauto.
... Ariosto, la musica e la piacevole compagnia occupavano i miei giorni
a Siena. ... Ero in una città di provincia nel cuore della bella
Toscana; una città completamente pacifica, dove non si poteva vedere
un solo soldato, né un forestiero. Io ero l'unico straniero. Mi sentivo
come nel più lontano dei paesi, nel più nascosto dei rifugi." |
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Nella
ricerca del carattere semplice e naturale degli abitanti, così come del
luogo recondito, appartato dal mondo, Boswell anticipa i tempi: in lui si rivela
infatti una sensibilità molto vicina a quella della successiva età
romantica. Nel suo modo di percepire la realtà senese si avverte un atteggiamento
del tutto estraneo al resto dei viaggiatori di cui ci stiamo occupando, sebbene
rimanga la selezione dello spazio sociale delle classi alte della popolazione.
E' interessante, perciò, vedere come un viaggiatore che passa da Siena
proprio negli stessi anni di Boswell, ma che viene considerato come un vero
illuminista, forse l'unico vero illuminista dei nostri viaggiatori, descriva
quella stessa società: |
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"Lord Mountstuart,che si è
stabilito a Siena per tre mesi, ci ha condotti in un ricevimento. Le donne
erano brutte e gli uomini così ignoranti che non mi sono sentito la
più leggera voglia di trattenermi in una città di cui avevo
udito tanto vantare la società." (Edward Gibbon)
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Lucca
"Lucca non è la città delle arti", afferma Edward
Gibbon senza mezzi termini. Difatti non si spende una parola, nelle pagine
lucchesi dei nostri viaggiatori, sulle caratteristiche architettoniche o sui
tesori artistici di questa antica città. L'interesse dei viaggiatori
inglesi, invece, è unicamente indirizzato verso le condizioni politiche
di Lucca.
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La città suscita
la profonda ammirazione degli inglesi proprio perché, al contrario
di Pisa e Siena, ha saputo difendersi dalle mire ambiziose dei fiorentini
ed ha conservato la propria autonomia. La libertà politica sembra
aver creato qui delle condizioni di prosperità economica sconosciute
nei territori granducali circostanti. Così giudizio politico, economico
ed anche antropologico risultano inscindibilmente connessi: |
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"Fa molto piacere vedere come il modesto territorio di questa piccola repubblica
è coltivato in modo da trarne il massimo profitto, sì che non
esiste una minima parte di terra che non venga coltivata
intensivamente.Tutti gli abitanti hanno un'aria di gioia e di abbondanza,
che non è facile incontrare nella gente dei paesi circostanti. C'è
solo una porta dalla quale possono entrare gli stranieri, perché si possa
sapere quanti ve ne sono nella città. Sopra la porta è scritto,
in oro, 'Libertas'. Questa repubblica è racchiusa nei domini del Granduca,
il quale attualmente è molto irritato contro Lucca, e sembra minacciarla
della sorte di Firenze, Pisa e Siena." (Joseph Addison) |
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Il tipo di lettura della
realtà lucchese è però rimasto immutato, a circa 60
anni di distanza: |
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"Abbiamo fatto il giro delle
mura; si dice siano lunghe più di tre miglia. Stento a credere che
siano più di due. Sono piantate di alberi e vi si gode la ridente visuale
di un bellissimo paese, perfettamente coltivato, che porta tutti i segni della
libertà e dell'abbondanza. Le condizioni politiche di Lucca somigliano
molto a quelle di Genova. L'industria fa la sua ricchezza, e la sua forza
sta nella stessa debolezza che le concilia la benevolenza del mondo senza
destare l'ambizione di nessuno. Tutte e due queste repubbliche hanno fortificato
la città con una cura estrema sebbene per difenderla non abbiano che
una guarnigione di seicento uomini. ... Avrei voluto passare un po' di tempo
a Lucca per studiare la costituzione dello stato. Le repubbliche meritano
sempre attenzione; sono tanto diverse quanto le monarchie sono simili le une
alle altre." (Edward Gibbon)
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tutto l'arco di tempo considerato, in effetti, lo schema interpretativo è
lo stesso in tutti i viaggiatori inglesi esaminati che passano per Lucca. La
città viene percepita unicamente nella sua valenza di 'polis' perfetta,
e le note che ne vengono date si riferiscono soprattutto alla struttura del
governo, del sistema legislativo e di quello militare. Portiamo a testimonianza
di una tale uniformità di interessi gli appunti di Joseph Spence su Lucca,
che sono i più curati e, allo stesso tempo, risalgono ad un periodo intermedio
tra Addison e Gibbon, precisamente al 1732: |
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"Lucca
(8-9 luglio): i bastioni molto ampi costituiscono una bella passeggiata
tutto intorno alla città. La scarpata interna è stupendamente
piantata di alberi, sia per bellezza che per utilità. Si parla di
22.000 anime nella città, incluso il reggimento, che è di
circa 1.200 uomini (secondo Repetti, 20.770 abitanti). Potrebbero metter
su un esercito di 30.000 persone, in certe occasioni. Si esercitano tre
volte al mese. Hanno armi per 22.000 uomini nell'arsenale, ma pochi cavalli.
Il paese è tenuto molto ben in ordine. Il primo governatore è
il gonfaloniere, che viene sostituito ogni due mesi (anche gli ufficiali
del reggimento diventano, a turni di due mesi, ufficiali comandanti); egli
non può allontanarsi dalla città, eccetto che una delle tre
grandi feste del paese capiti nel periodo della sua magistratura. Una di
queste è la festa per la libertà ('di Libertà'). Lo
stemma della città consiste solo in uno scudo con volute ornamentali
e con scritta la parola 'Libertas'. Nessuno può essere eletto gonfaloniere
più di una volta ogni sei anni (sei successioni all'anno per sei
anni fanno trentasei, così ogni famiglia può ottenere l'incarico
principale una volta ogni sei anni) e nessuno, appartenente alle trentasei
famiglie che possono accedervi, può essere eletto prima dei quarant'anni.
Ci sono nove 'anziani', che con il gonfaloniere compongono la prima magistratura
[il governo]. I magistrati sono eletti tramite scrutinio dai nobili, che
fanno tutti regolarmente parte del consiglio dai venticinque anni di età.
Tre di questi nobili devono, tutte le sere, compiere la passeggiata sui
bastioni per diverse ore, in modo da assicurarsi che vi sia la guardia e
prestare attenzione personalmente. Vi sono due giudici: uno penale, l'altro
civile; e altri tre 'conjunctim', ai quali è affidato l'ultimo ricorso
per entrambi. Non possono imprigionare un cittadino in segreto (come a Venezia),
e devono concedergli un processo pubblico. I cinque giudici sono tutti obbligati
dalla costituzione ad essere stranieri, così che non possano avere
alcun attaccamento a famiglie o a diversi interessi e devono continuare
per tre anni a non impegnarsi in alcun modo; ognuno è obbligato a
portare un certificato che garantisca che ha agito bene come giudice in
altre città, perché si possa essere sicuri delle sue conoscenze
e della sua integrità. La terra viene ripartita tra le famiglie del
paese, come tra gli antichi Romani: hanno tre raccolti l'anno (credo di
grano, vino e olive) ma l'intero ricavato del primo deve essere versato
dal coltivatore ad una specie di affittuario o allo stato. La maggiore estensione
in lunghezza del territorio lucchese è di trentacinque miglia, e
in larghezza di sedici miglia, e si trova principalmente in una valle circondata
da montagne, e solo una piccola parte raggiunge il mare. Non hanno strutture
coperte per il ricovero del grano (come avviene normalmente negli altri
paesi) e credo che non l'ammucchino nemmeno in biche: quando l'abbiamo visto
noi, era in covoni allineati in una sola fila per ogni appezzamento di terra.
Il popolo non prende parte al governo: tutta la sua sicurezza sta nell'origine
delle leggi. Sicché è assolutamente un'aristocrazia come quella
di Venezia, ma non è altrettanto assoluta. L'abito degli anziani
è bello e solenne; hanno una fascia di tessuto dorato sopra la spalla
- l'abito del gonfaloniere è più ricco e il cappello è
tutto lavorato in oro. Tutti i nobili hanno un abito particolare: è
nero e, quando indossato in cerimonia, molto bello. I lucchesi sono sotto
la protezione dell'imperatore." |
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Note conclusive
La conoscenza della Toscana nell'Inghilterra dell'età
dell'Illuminismo appare dunque una conoscenza molto selettiva, sia come immagini
ambientali che sociali e culturali.
Conoscenza vera si realizza solo in rari casi, perché lo stesso modello
interpretativo del confronto, utilizzato dai viaggiatori illuministi inglesi
nell'accostarsi a realtà diverse dalla propria, mette in atto una serie
di condizionamenti che inibiscono in partenza lo stesso processo conoscitivo.
Al di là delle sensibilità personali, ciò che passa al
grosso pubblico e che si sedimenta nell'inconscio collettivo - e quindi resta
come immagine di una regione - è una serie di informazioni, di interpretazioni
e anche di immagini già codificate, che vengono trasmesse e riprodotte
da una vasta schiera di viaggiatori, i quali a loro volta hanno misurato quella
realtà secondo immagini preesistenti e l'hanno interpretata secondo
schemi e modelli tradizionali del proprio mondo. A ciò dobbiamo riferirci
se vogliamo comprendere quale tipo di sapere geografico e quale conoscenza
della Toscana esce dai resoconti di viaggio esaminati.
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