“Terminato il nevaio, ci si spalancò davanti una verde
vallata. Eravamo in Prokletija: il Paese Proibito. Marko assunse un'aria
ansiosa, mentre il frate cantava a squarciagola: "Una damigella
inglese sta andando a Vuthaj!" prima in tedesco e poi in albanese,
e sembrava al sommo della gioia. Tutto ciò che accade nella penisola
balcanica è governato da meccanismi segreti. Ora capivo i veri
retroscena della mia spedizione. Qualche tempo prima, un certo austriaco
aveva offeso un montanaro di Thethi, macchiandone l'onore. Poco dopo
quello stesso austriaco aveva tentato di raggiungere la vietatissima
Gusinje, e non ci era riuscito. I montanari pensavano che se una donna
inglese si fosse spinta più lontano di lui, egli ne sarebbe stato
mortalmente seccato. Ero una pedina nel piacevole gioco di schiaffeggiare
l'Impero Austro-Ungarico.
Fu dato l'alt. Mi dissero che da lì in avanti dovevo figurare
come la cognata di uno dei miei accompagnatori, e far sparire la kodak
e la penna stilografica, che non erano in sintonia col personaggio. Inoltre,
poiché stavamo entrando in terra musulmana, mi fu ricordato che
le donne devono tenere a freno la lingua. La cosa mi piacque pochissimo,
perché avevo creduto che il mio viaggio si sarebbe svolto alla
luce del sole. Ma era troppo tardi per tornare indietro, e del resto
non ne avevo alcuna intenzione. Per non causare inconvenienti col mio
comportamento riottoso, feci buon viso a cattivo gioco.
La valle si aprì e si allargò, e in lontananza comparvero
le case sparse di Vuthaj, alte kulla ben costruite. Al centro
sorgeva una piccola moschea con un minareto di legno. Era uno spettacolo
incomparabile nel fulgore del sole. Impugnai la kodak. "Presto,
prima che venga qualcuno. Sei la prima straniera che entra in questa
terra". Click. E la macchina fotografica scomparve di nuovo. Ora
tutti i membri della mia scorta si fecero silenziosi e preoccupati. Ci
venne incontro un gruppo di persone, che ci guardava con occhi sospettosi.
Il francescano urlò un saluto, e gli fu risposto cordialmente.
Smontammo e fummo condotti alla kulla dell'uomo che avevamo
incontrato a Okolo.
Era una bella casa, la migliore di Vuthaj, con un allegro fregio tutt'intorno
al tetto dipinto con figure di cavalli e cavalieri, mezzelune e soli splendenti.
Seguii gli uomini con aria umilissima, tenendomi a rispettosa distanza,
mentre frugavo dappertutto con sguardi furtivi. Salimmo al piano superiore,
in una stanza dal pavimento coperto da un grande tappeto di lana bianco
e rosso. Le pareti erano imbiancate a calce. C'erano un paravento di legno
intagliato, una pendola, specchi, una lampada a paraffina. Gli specchi
erano arrivati da Scutari seguendo la stessa strada che avevamo fatto noi,
e grazie a chissà quale miracolo erano arrivati intatti.
Il padrone di casa ci ricevette con grande cortesia. Naturalmente chiedere chi
fossi io non rientrava nelle norme della buona educazione locale. Sedetti in
un angolo come mi fu ordinato, accoccolandomi sul pavimento, tenendo la lingua
a freno e osservando ogni cosa.
I malati arrivarono in folla per consultare il frate, il quale si affaccendava
a scrivere ricette e talismani: fogli segnati con una croce e un breve testo
in latino, dei quali c'era grande richiesta fra i musulmani. E veniva un sacco
digente anche solo per vedere noi, perché io ero la prima donna forestiera
che si fosse vista a Vuthaj, la prima vestita alla franka [all’europea]
e anzi il primo straniero di qualsiasi sesso che fosse arrivato lì sano
e salvo.
Il padrone di casa distribuiva senza posa caffè e sigarette. La stanza
era affollata all'inverosimile di uomini alti, robusti e cinti tutti quanti di
cartuccere.
II francescano suggerì che avremmo potuto andare a far quattro passi,
ma gli venne fermamente imposto di rimanere lì, e di scrivere i suoi talismani.
Arrivarono altri visitatori, che mandarono a prendere una botticella di acquavite
per bere alla nostra salute. "Kiofte levduar Christi",dicevano
sollevando il bicchiere: "Sia lodato Gesù Cristo". Non so se
nei villaggi cristiani si usino simili cortesie con i musulmani.
Poi cominciò una discussione teologica. Uno dei nuovi venuti aveva un
amico che era stato a Gerusalemme, dove aveva sentito dire – da fonte autorevole – che
Cristo non era stato crocifisso, ma era andato direttamente in Cielo; al suo
posto avevano crocifisso una controfigura. In un bisbiglio, il francescano mi
chiese se era il caso che si battesse contro quell'eresia. "No, per carità",
gli risposi. "Siamo loro ospiti, enon dobbiamo suscitare controversie".
Così l'argomento fu lasciato elegantemente cadere. Erano ormai le dieci
di sera, e noi non avevamo mangiato nulla dalla mattina. Ma continuavano ad arrivare
spettatori che salutavano e bevevano caffè e arrotolavano sigarette per
me, che venivano prontamente raccolte e fumate da Marko e dal francescano. Arrivò una
specie di gigante con un tamburo, che si mise a suonare e a cantare interminabili
ballate. La stanza era piena di fumo e di odore di umanità. Mi rannicchiai
e mi assopii nel mio angolo, mentre il frate ripeteva languidamente: "Oh,
come sono affamato".
Finalmente le donne – che ogni tanto si erano affacciate sulla soglia,
sogguardando – arrivarono con acqua e sapone; ci lavammo, e io fui invitata
a mangiare con gli uomini della casa, Marko e il francescano. Mentre il capofamiglia
tagliava per noi immense fette da un pane di mais grande come una ruota di carro,
le donne posarono sulla tavola un grande vassoio colmo di riso pilaff e carne
di montone. Il nostro ospite porse a ciascuno di noi un boccone con le dita;
prima al francescano, che era l'ospite d'onore. Poi tutti si buttarono sul vassoio
come lupi, e in pochi istanti lo vuotarono, in un gran turbinio di ossa di montone
che venivano spolpate e gettate rapidamente dietro le spalle. Il vassoio vuoto
fu ritirato e sostituito rapidamente con un altro contenente latte acido, in
cui tutti intinsero il pane di mais, prosciugandolo in un amen. L’intera
cena non durò più dì un quarto d'ora.
I visitatori si stravaccarono sul pavimento, bevendo caffè e intonando
ballate al suono del tamburo, mentre le donne portavano l'acqua per i lavacri.
Sembrava che nessuno avesse intenzione di andare a dormire. Io e il francescano
eravamo morti di sonno, e ogni tanto crollavamo l'una sull'altro. Solo verso
mezzanotte l'ultimo allegro compagno se ne andò. Allora tornarono le donne
per stendere i pagliericci sul pavimento. Credevo che mi avrebbero fatto dormire
nelle stanze riservate al bel sesso, ma dopo un lungo dibattito si decise che
mi sarei coricata in un angolo, a protezione del quale si sarebbe steso di traverso
il francescano, mentre il resto della compagnia maschile si sarebbe ammucchiato
nell'angolo opposto. Il francescano, che come molti cristiani era fermamente
convinto che la religione maomettana fosse caratterizzata da un odore particolarmente
spiacevole, era contento come una Pasqua per quella sistemazione: "Che fortuna!" mi
disse. "Tu non puzzi". Mi addormentai appena toccai il giaciglio.
Ma alle quattro del mattino entrò il padrone di casa e fece un fracasso
tremendo accendendo il fuoco efacendo il caffè. Tutti cominciarono a scuotersi
e ad alzarsi. Ero ancora distrutta, e avevo bisogno di dormire. Sbirciai per
vedere se il francescano si alzava, ma quello dormiva della grossa, e decisi
di imitarlo.
Ma come la sera precedente, la gente del paese non aveva niente da fare, e la
stanza si riempì di bevitori di caffè. Non c'era verso di dormire,
così uscii dal bozzolo delle coperte e chiesi a Marko il sacchetto contenente
il sapone, lo spazzolino da denti, il pettine e l'asciugamano, che era fissato
alla mia sella. Ahimè! In cima al passo, qualcuno aveva risistemato le
selle, e quei preziosi beni erano andati perduti. Ero profondamente depressa
all'idea di non potermi pulire i denti per i prossimi dieci giorni, ma Marko
non stava in sé dalla gioia. "Adesso sono sicuro che torneremo a
casa vivi. Abbiamo avuto la nostra disgrazia! Abbiamo perso qualcosa. E poi",
aggiunse guardandomi fisso, "tu non puoi aver bisogno di quelle
cose! Uno spazzolino per i denti!".
Il francescano mi disse che nel frattempo aveva chiesto di poter andare a Gusinje,
ma che la cosa gli era stata formalmente vietata. Avrei potuto proseguire da
sola, e forse ce l'avrei fatta; ma i miei uomini non avrebbero mai accettato
di lasciarmi andare, mi avrebbero seguito e ne sarebbe nato uno scontro. Perciò trangugiai
l'amaro calice.
Il frate chiese di nuovo di poter fare una passeggiatina, richiesta che suscitò un’accanita
discussione. Infine un gruppo numeroso uscì con noi, e ci accompagnò per
qualche centinaio di metri fino a un grande susino, sotto la cui chioma fummo
invitati a sederci, circondati dai nostri sorveglianti. Dopo una mezz’ora
fummo riportati indietro, fatti salire nella solita stanza e ammoniti che dovevamo
rimanere lì. Marko divenne piuttosto ansioso. "Hai voluto venire",
disse. "Adesso siamo prigionieri, e Dio sa cosa ci capiterà".
Io ero ossessionala dall'idea di vedere Gusinje, e non pensavo ad altro.
Il pranzo fu identico alla cena, poi ci dissero che dovevamo aspettare finché un'altra
casa non fosse stata pronta per accoglierci. Ne approfittai per dormire un poco,
e Marko per vituperare a lungo il francescano che secondo lui ci aveva ficcati
in quel pasticcio. Quando alle tre vennero a dirci che i cavalli erano pronti,
i miei due angeli custodi erano tristi e depressi.
Il nostro ospite venne ad augurarci buon viaggio sulla soglia, mentre alcuni
uomini della casa ci scortarono per consegnarci nelle mani dei nostri nuovi accompagnatori.
Prendemmo una scorciatoia, e il francescano disse agli uomini di andare avanti
con i cavalli, mentre noi avremmo fatto due passi per sgranchirci. Nessuno fece
obiezioni. Scalammo una piccola altura nel bel mezzo della valle, e d'un tratto
il frate mi chiese:
"C’è abbastanza luce per fare una fotografia?"
"Fotografia? E di che?"
"Di Gusinje!"
E laggiù, laggiù nella piana, avvolta nella bruma e circondala
dai boschi, vidi la città dei miei sogni che cercavo di raggiungere da
cinque anni. Dovevo accontentarmi di vederla da lontano: ma insomma, finalmente
l'avevo vista, una manciata di case bianche in una ridente vallata verde. Tutto
ciò che è irraggiungibile sembra anche di una bellezza paradisiaca.
Un uomo della nostra scorta tornò indietro a cercarci, e finalmente ci
spiegò perché ci avevano tenuti rinchiusi. A Gusinje era arrivata
la notizia che una straniera infedele si trovava nelle vicinanze, e i sowari[sorta
di gendarmi turchi] erano stati mandati attorno per individuarla e arrestarla.
Ma il nostro bravo ospite ci aveva tenuti nascosti finché la pattuglia
non si era allontanata liberando il cammino che dovevamo seguire.”